lunedì 20 giugno 2011



L'avventura del Re Rama

Valmiki Muni narrato da
 Manonath Dasa (Mario Savelloni)


Dedicato a Sua Divina Grazia
A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada
Bala Kanda
Una volta, tanto tempo fa, quando si studiavano i sacri libri Veda, coloro che desideravano la realizzazione spiri­tuale si ritiravano nei luoghi sacri, di cui l'India è ancora oggi ricca. La vita delle persone era suddivisa in varie tappe, ed il culmine era la rinuncia ad ogni attaccamento alle cose materiali, prima che il tempo ineluttabile esercitasse la sua forza portando via tutto con la morte. Il saggio Valmiki, autore dell'opera oggetto del nostro racconto, era una di quelle persone. Trascorso il periodo durante il quale l'ignoranza ottenebrava il suo cuore, egli si ritirò in un eremo nella foresta a studiare e a meditare. Valmiki era diven­tato un saggio molto famoso e rispettato. Grazie alle sue ascesi a­veva sviluppato notevoli poteri mistici.
Un giorno ricevette la visita di Narada Muni, il suo maestro spirituale. Dopo avergli offerto i rispetti dovuti a un guru, i due saggi si sedettero all'ombra di un grande albero di banyano, non distante dall'eremo di Valmiki. Iniziarono la conversazione.
"Sono molto fortunato ad averti conosciuto", disse Valmiki, "e grazie a te sono stato iniziato al canto dei sacri mantra vedici, grazie ai quali ho ottenuto un grande progresso spirituale. Inoltre tu hai studiato tutte le scritture e me ne hai insegnato i punti essenziali. Oggi ho una curiosità che ti prego di soddisfare."
Narada sorrise. Per un maestro è una fortuna avere discepoli che sanno fare le domande giuste; questa era per lui un'opportunità di recitare storie sacre che potevano purificare il cuore. Sapeva che Valmiki era un bravo discepolo.
"In questo mondo," continuò, "ci sono molti re santi e anche grandi saggi che hanno controllato completamente le loro passioni. Ma vorrei sapere: chi è il più grande tra loro? Chi è il più famoso, il più nobile, il più veritiero e il più fermo nei suoi voti? Chi è la più grande personalità di questo tempo?"
Narada non rimase molto tempo a riflettere, come se non avesse dub­bi. Era evidente che pensava già a qualcuno in particolare e sorrise anco­ra, grato al suo discepolo per avergli dato l'opportunità di parlarne. Sem­brava particolarmente felice.
"Nella dinastia Ikshvaku," rispose Narada, "è nato Rama, un uomo così nobile e virtuoso come mai questo mondo ne vide. Le sue qualità non hanno limiti ed è una grande gioia per me e per chiunque altro rac­contarne le gesta. Se vuoi posso narrarti la sua sacra storia."
Valmiki assentì, felice, e il giorno vide i due saggi seduti all'ombra rinfrescante del gigantesco albero che parlavano della sacra storia del re Rama. L'atmosfera tutt'intorno era meravigliosamente serena e dolce, e mentre Narada si apprestava a raccontare la storia di Rama, i discepoli di Valmiki vennero e si sedettero tutt'intorno, attratti da quelle parole e da come si svolgeva la recitazione. Era dolcissima. Una storia così bella non era mai stata narrata prima di allora. Tutti provarono una grande ammi­razione per quel re e per l'abnegazione con la quale governava il suo re­gno, ammirazione per i suoi principi morali, per l'amore che provava per il prossimo fino al punto di rinunciare a tutto ciò cui era più affezionato; e ammirazione per le sue qualità spirituali.
Valmiki non riuscì mai a dimenticarla.
Un giorno, accompagnato dal suo discepolo Bharadvaja, il Rishi Valmiki era andato sulle rive del fiume Tamasa, non lontano dal Gange. L'acqua era cristallina e una gentile brezza rinfrescava l'aria. L'atmosfera era incantevole. Così decise di fermarsi lì per le sue abluzioni gior­naliere. Mentre si preparava ammirava la foresta verdeggiante alle loro spalle e che rendeva idilliaco il panorama. Quanta pace! E quanta bel­lezza! Che artista doveva essere il creatore delle cose tutte! Pensava.
Sul ramo dell'albero c'era una coppia di uccelli che amoreggiavano. Il saggio li guardava, meditando serenamente. All'improvviso la tragedia inaspettata: una freccia scagliata da un cacciatore nascosto trafisse il ma­schio, che cadde morto. La sua compagna sembrava impazzita dal dolo­re, tanto che non riusciva neanche a fuggire, e correva il rischio di finire uccisa anche lei. Valmiki guardava la drammatica scena e provò una pe­na profonda per gli uccelli, così violentemente strappati alla loro felicità.
Poi sentì la collera scaturirgli dal cuore, incontrollabile, e decise di ma­ledire il cacciatore. A voce alta, in modo da essere ascoltato, il saggio disse:                    
"Tu hai colpito due uccelli mentre si accoppiavano, e per quest'atto ignobile mai otterrai alcuna fama."
 Il cacciatore fuggì impaurito, temendo altre maledizioni. Mentre lo guardava fuggire, Valmiki si fermò pensieroso. Qualcosa aveva colpito la sua mente. La maledizione, come l'aveva pronunciata? Come aveva espresso il suo dolore? Involontariamente aveva manifestato la sua colle­ra in versi perfetti, in un'espressione simmetrica e ritmata tale da poter essere recitata anche in musica. Nei giorni che seguirono rifletté a lungo.
"Questa espressione che ho involontariamente creato è meravigliosa. Sembra fatta proprio per recitare poemi anche in musica. Diffonderò il suo uso in tutto il mondo. E siccome è nata dal mio shoka (dolore) i suoi versi saranno chiamati shloka."
Da allora i maggiori testi sacri furono scritti in shloka.
Un giorno, dopo aver terminato i suoi riti religiosi e le sue abluzioni, il saggio tornò all'eremo. E lì, radiante della luce di mille soli, gli apparve Brahma, il primo essere nato, colui che ha progettato e costruito l'uni­verso in cui viviamo. Stupito da quella improvvisa visione, Valmiki si prostrò in terra, offrendogli rispettose preghiere. Con voce profonda il grande Brahma gli rivolse queste parole:
"O Muni, quella maledizione e la maniera con cui l'hai pronunciata, non sono state un caso. E' accaduto per mici volere. Tu hai una missione in questo mondo e non devi più indugiare. Devi comporre il poema della vita del re Rama così come l'hai ascoltata da mio figlio Narada."
A quelle parole Valmiki si sentì il cuore pervaso da una grande gioia, e non solo per il fatto di avere davanti a sé Brahma, il figlio diretto di Vi­shnu, ma anche per quella richiesta che confermava ciò che già prima sentiva dentro di sé. Brahma non aveva fatto altro che ordinargli espres­samente di fare ciò che lui sentiva come un dovere e anche come una precisa necessità interiore. Ma aveva dei dubbi. Ne sarebbe stato capace? E Brahma, comprendendo le sue perplessità, lo rassicurò.
"Non preoccuparti. Non avere dubbi sulle tue capacità. Narra ciò che sai. E tutto ciò che ancora non sai ti sarà rivelato in meditazione. Dalla compilazione di questo poema otterrai fama imperitura, e sii certo che questa storia sarà recitata ed ascoltata fintanto che esisteranno i mari e le montagne”. "E tu vivrai felicemente e a lungo su questa terra," continuò Brahma, "e poi godrai delle gioie dei pianeti celesti”. Dopo aver detto questo Brahma scomparve, e Valmiki si convinse che quella era la sua missione.
Narada gli aveva raccontato solo un riassunto della storia, e Valmiki sentì la necessità di conoscerne tutti i particolari. Così si sedette in posi­zione yoga e si immerse in una profonda meditazione. E come per mira­colo vide l'intera vicenda svolgersi davanti a sé, vera e vivida come se stesse assistendovi di persona. E cominciò a scriverla, a comporre il Ra­mayana.
Quando Rama tornò sul trono di Ayodhya, Valmiki aveva completato la stesura del poema, composta di 24.000 shloka. Dopo averlo terminato, pensò al modo di comunicarlo al mondo intero.
Un giorno vennero a trovarlo i due principi Kusha e Lava che viveva­no nella foresta. Essi non erano altri che i due figli di Rama nati dopo l'e­silio di Sita. Valmiki quindi insegnò loro il Ramayana, chiedendo che andassero poi a cantarlo in giro per le città del mondo. E i due ragazzi furono felici di soddisfare il desiderio del grande saggio. La fama dei giovani e della storia che cantavano si diffuse velocemente ovunque.
Nel loro peregrinare, un giorno Kusha e Lava arrivarono ad Ayodhya e cominciarono a cantare il Ramayana per le strade della favolosa città. Appena il re Rama venne a sapere che i due cantori erano arrivati nella sua capitale volle vederli, ignaro del fatto che fossero i suoi stessi figli. Li convocò nell'arena dove stava conducendo un grande sacrificio e, quando i due giovani entrarono, ammirò la loro grazia e la loro nobiltà di portamento.
"La fama vostra e della storia che narrate," disse loro Rama, "è arri­vata alla mia conoscenza. Tutti ne parlano con grande entusiasmo. Mi è stato detto che il compositore è il venerabile Valmiki Muni, un saggio tra i più grandi e onorati che ci siano. Potete capire la mia curiosità. Vi pre­go, recitatela qui, davanti a me; cantate la storia di cui io stesso fui il protagonista."
E così Kusha e Lava cominciarono a cantare il grande poema, il Ra­mayana.

Sulle rive del Sarayu si ergeva la città di Ayodhya, capitale del regno di Koshala. Le opulenze di questo regno erano inenarrabili, in special modo quelle della sua capitale.
Ayodhya misurava 12 yojana in lunghezza (circa 153 chilometri) e tre in larghezza (circa 38 chilometri) ed era la più bella città mai esistita. Con tutte quelle opulenze i cittadini erano completamente soddisfatti e felici.
Il re si chiamava Dasaratha, un raja pio e dotato di ogni virtù, in tutte le qualità simile ai più grandi re della tradizione vedica, così valoroso in combattimento che mai conobbe sconfitta. Dasaratha era assistito da due famosi brahmana che si chiamavano Vasishtha e Vamadeva. I brahmana a quel tempo erano le guide spirituali, coloro che provvedevano non solo all'educazione spirituale, ma anche ad ogni altra educazione necessaria alla vita terrena. I brahmana erano i saggi, gli intellettuali, i sacerdoti, tenuti in grande riguardo da tutti i re del tempo. Dasaratha aveva nume­rosi altri consiglieri, tutti famosi e rispettati per la loro integrità, come Suyajna, Javali, Kasyapa Muni, Gautama, Markandeya e Katyayana. E aveva otto ministri, fra cui il più conosciuto era Sumantra.
Tuttavia, nonostante avesse tutte le opulenze che un uomo e un re potessero desiderare, Dasaratha non era felice. La ragione: non riusciva ad avere figli. Lui aveva tre mogli, Kausalya, Sumitra e Kaikeyi, tre donne di nascita nobile e dal cuore virtuoso, ma che senza alcun motivo ap­parente non riuscivano a dargli figli. Un giorno il re convocò i suoi con­siglieri.
"Miei cari, voi conoscete il problema che mi assilla da tanto tempo. E' come una spina nel fianco che non dà pace né a me né alle mie mogli. E non sono riuscito a capire il perché io non riesca ad avere figli. Il tempo corre ed io non vorrei avvicinarmi troppo alla vecchiaia prima di aver colto i frutti della vita. Vorrei sapere da voi se nei Veda sono previsti dei sacrifici al fine di propiziare i Deva. E' possibile fare qualcosa per risol­vere questo problema? Voi siete tutti eruditi e avete studiato le scritture in tutti i loro particolari. Sono certo che se qualcosa può essere fatto voi ne sarete a conoscenza."
"Buon re" disse Vasishtha, come portavoce di tutti gli altri, "cer­tamente esiste un sacrificio che può propiziarti i Deva, e sono sicuro che essi soddisferanno il tuo desiderio. Questo sacrificio è l'Asvamedha. So­no certo che se lo farai, presto otterrai un figlio che corrisponderà esat­tamente ai tuoi migliori desideri."
Ne discussero a lungo. Alla fine tutti furono concordi sulla necessità di celebrare l'Asvamedha-yajna.
Il giorno dopo Sumantra, rivolgendosi al re mentre discutevano della preparazione del sacrificio, volle raccontare una storia.
"Vorrei raccontarti la vecchia storia di come Sanat-Kumara predisse che un grande re sarebbe apparso nella tua dinastia e che sarebbe stato tuo figlio.
Sanat-Kumara disse: "Kasyapa ha un figlio, Vibhandaka, il quale a sua volta avrà un figlio che si chiamerà Rishyasringa. Il giovane sarà un gioiello di eremita, con tutte le migliori qualità di un rinunciato, e osserverà con precisione e de­vozione tutti i più severi voti della vita di un brahmacari. E ci sarà un re chiamato Lomapada che commetterà delle atrocità, e a causa di queste il suo regno sarà colpito da una terribile siccità. I suoi sudditi patiranno molti stenti. La calamità, gli sarà detto, sarebbe cessata solo se il giovane saggio Rishyasringa fosse venuto a visitare il suo regno. Così il re sarà costretto a mandare nell'eremo delle bellissime donne, esperte nell'arte della seduzione, per convincerlo a venire con loro, a seguirle fino alle terre di Lomapada.
"I saggi generalmente non amano visitare città affollate e chiassose, per cui Lomapada non vedeva altra soluzione che quella di attirarlo con 1'inganno. E nel momento in cui Vibhandaka non sarà presente, le ragaz­ze sedurranno l'ignaro asceta. Così Rishyasringa verrà nel regno di Lo­mapada e la siccità terminerà. E per placare la rabbia del padre, Lomapa­da darà sua figlia Shanta in sposa a Rishyasringa."
Sanat Kumara continuò la narrazione.
"Nella linea di Ikshvaku nascerà un re pio di nome Dasaratha, che sa­rà un grande amico di Lomapada. Egli avrà difficoltà ad avere figli, ma se farà eseguire il sacrificio Asvamedha a quello stesso Rishyasringa, ve­drà soddisfatto il suo desiderio."
   "Convoca dunque quel rispettabile santo," concluse Sumantra, "e sii sicuro che grazie alla sua purezza otterrai certamente l'oggetto del tuo desiderio."
Dasaratha fu felice di sentire che anche prima della propria nascita Sanat-Kumara aveva parlato di lui, e si convinse che quella era la strada da seguire.
Gli esperti cominciarono le preparazioni e dei veloci messaggeri fu­rono inviati per invitare tutte le più grandi personalità del tempo. Il re non badò a spese, l'opulenza che fu vista in quel sacrificio era inenarrabi­le.
E cominciò. Dasaratha e le sue regine al bordo dell'arena erano an­siosi e preoccupati per la riuscita finale, ma la fiducia verso il famoso a­sceta che guidava lo yajna era totale. Al cenno di Rishyasringa, Dasara­tha e le regine si sedettero di fronte al fuoco e il re disse a voce alta:
"Questo sacrificio è stato celebrato con la precisa intenzione da parte mia di avere figli, giacché un destino misterioso mi ha condannato a non averne. La mia dinastia non può interrompersi, per cui è necessario per me avere un successore."
"O re virtuoso," rispose Rishyasringa, "il tuo desiderio sarà esaudito."
Nei pianeti celesti, quei mondi dove la vita è priva degli affanni di cui invece è piena la nostra, in quel periodo c'era molta preoccupazione. Gravi problemi assillavano la loro lunga e fortunata esistenza.
In coinci­denza con lo svolgimento del sacrificio di Dasaratha, Brahma ricevette la visita dei Deva principali. Sembravano preoccupati, quasi ansiosi. Era evidente che un grave problema li assillava e che venivano a chiedere aiuto al loro padre.
"Oramai non c'è più limite ai soprusi che il terribile Rakshasa Ravana sta infliggendo all'umanità intera. Regni distrutti, città rase al suolo, mucche e saggi trucidati, donne rapite e violentate. E molto di più. Noi non possiamo nulla contro la potenza di quell'essere malvagio, che tu hai reso invincibile. Ti preghiamo, intervieni e ristabilisci la pace e la sereni­tà."
"Voi sapete come io," rispose Brahma, "abbia benedetto Ravana a es­sere praticamente invulnerabile, realmente invincibile. Egli non può es­sere ucciso da nessuno. Questo è dunque un grave problema sul quale ho già meditato a lungo, ma non sono ancora riuscito a trovare una soluzio­ne. Solo un essere della specie umana potrebbe ucciderlo, ma non esiste un uomo tanto potente. E nessuno di noi Deva può fare niente contro di lui. Ma bisogna trovare una soluzione. L'emergenza è della massima gravità. Ho quindi preso la decisione di rivolgermi a Vishnu, il Signore Supremo. Sono certo che Egli ci aiuterà a porre fine a questo incubo."
Brahma si chiuse in una profonda meditazione: aveva un aspetto così solenne e imperturbabile che sembrava che nulla potesse scuoterlo. Non molto tempo dopo Vishnu apparve.
"Io so quante angherie state subendo dal malvagio Rakshasa. Proprio per porre fine alle sue malefatte io, diviso in quattro personalità, apparirò come figli di Dasaratha. In questo modo porrò fine alla carriera scia­gurata di Ravana."

Non appena Vishnu ebbe finito di parlare, una figura celestiale emer­se dal fuoco del sacrificio che ardeva ad Ayodhya e parlò, rivolgendosi al re.
"Dasaratha, sono stato mandato dai Deva per soddisfare il tuo grande desiderio e necessità. Brahma in persona mi ha incaricato di darti questo succo divino chiamato payasa. Ascoltami: fallo bere alle tue spose ed esse concepiranno delle incarnazioni di Vishnu."
Dasaratha si alzò e prese il recipiente dalle mani dell'inviato dei De­va, che immediatamente scomparve. E lo porse alla sua prima moglie Kausalya e le disse di berne metà. Poi lo dette alla sua seconda moglie Sumitra e le chiese di bere metà del rimanente. Ciò che rimase lo porse alla terza moglie, chiedendole di fare lo stesso, e cioè di bere la metà di ciò che era rimasto. E l'ultima metà la fece bere ancora a Sumitra.
Questo fu il criterio con cui Dasaratha distribuì il succo divino consegnatogli dal messaggero celeste.
Chiari segni di gravidanza furono visibili istantaneamente nelle re­gine: Narayana, Vishnu, era già entrato nei loro corpi.
Vedendo tutto ciò dall'alto dei pianeti celesti, Brahma riunì tutti i De­va e disse loro:
"Vishnu vuole aiutarci. A questo scopo è già sceso sulla Terra, e voi dovete aiutarlo nella sua missione. Scendete nel mondo degli uomini e incarnatevi anche voi in forme diverse. Dal ventre delle Apsara produce­te una razza di Vanara veloci come il vento e invincibili in guerra, e che siano estremamente forti e intelligenti. Agite così, dunque, senza nessun indugio, per il bene della popolazione dell'universo."
Brahma dette l'esempio: fu il primo e generò Jambavan, il re degli or­si, nato da uno sbadiglio. Indra produsse Vali, che era alto come una montagna; e Vivasvan procreò Sugriva; e Brihaspati l'intelligente Tara­ka; e Kuvera generò Gandhamadana. Da Visvakarma nacque Nala; e da Agni, Nila; dai due Asvini Kumara, Mahinda e Dvivida; da Varuna, Su­shena; e da Paijanya, Sarava. Vayu, il Deva del vento, generò il grande devoto Hanuman. Tutti i grandi Deva e saggi celesti procrearono potenti scimmie e orsi, dai corpi duri come il diamante e valorosissimi in guerra, che velocemente cominciarono a discendere sulla Terra.
Quando il sacrificio Asvamedha fu terminato, tutti si apprestarono a tornare nei loro rispettivi paesi e città. Anche il puro Rishyasringa lasciò Ayodhya, ricoperto di onori e ricchezze.

I bambini nacquero. Kausalya fu la prima a partorire e suo figlio fu chiamato Rama. Poi Kaikeyi, e suo figlio fu chiamato Bharata. Infine Sumitra, che dette alla luce due gemelli, ai quali furono dati i nomi di Lakshmana e Satrughna.
I bambini crescevano giorno dopo giorno, pieni di tutte le buone qua­lità. Erano belli, forti, abili, coraggiosi, gentili, virtuosi e devoti ai prin­cìpi della religione. Tutte queste qualità erano presenti nei figli di Dasa­ratha, che non sapeva nascondere la sua gioia e il suo amore verso i ra­gazzi. In particolare Rama era il più amato, e non soltanto dal padre, ma anche da chiunque lo conoscesse. Fin dall'infanzia Lakshmana sentì un amore spontaneo verso il fratello maggiore e i due non si separavano ne­anche per un momento. Satrughna, invece, sviluppò un sentimento parti­colare per Bharata. Ma non ci furono invidie o competizioni fra di loro: i quattro si amavano tutti di un profondo amore fraterno.

Quando i ragazzi furono in età da matrimonio, il re cominciò a consi­derare differenti possibilità.
C'erano innumerevoli principesse nobili e stupende, e tutte sarebbero state liete di sposare i suoi figli.
Proprio in quel periodo arrivò ad Ayodhya il grande Visvamitra, il saggio dalla fa­ma immortale, che aveva raggiunto le più alte vette della perfezione a­scetica. Le sue austerità furono così severe che i Deva si spaventarono più volte, pensando che volesse distruggerli col fuoco della sua potenza. Entrò nel palazzo reale e si annunciò, chiedendo di essere ricevuto dal re. Appena Dasaratha seppe del fortunato arrivo, balzò dal trono e si preci­pitò a dargli il benvenuto, portando con sé tutto il necessario per onorare il santo. Quando il puja fu terminato, tutti si sedettero, e fu Dasaratha a rompere il silenzio.
"O grande Rishi, santi come te purificano ogni luogo che visitano. Io sono felice del tuo arrivo e voglio prometterti di soddisfare qualsiasi tua necessità, anche se so che asceti del tuo calibro non hanno alcuna esi­genza. Tuttavia voglio sperare che tu sia venuto qua con qualche richie­sta. Ne sarei felice, così potrei impegnarmi al tuo servizio,"
Il saggio aveva un'espressione grave, ma una vivida luce di santità e di misericordia emanava dai suoi occhi scuri. Era visibilmente soddi­sfatto per la completa disponibilità del re. Senza fretta alcuna parlò:
"In realtà sono venuto qua con una richiesta precisa", disse Vi­svamitra, "che nasce da problemi che ostacolano la mia tranquillità e quella degli altri eremiti con i quali vivo. Sono venuto a chiederti assi­stenza."
Dasaratha si sentì contento di poter fare qualcosa per un saggio così famoso.
"Qualunque sia l'ostacolo, fa conto che non esista già più," rispose Dasaratha con entusiasmo. "Niente in questo mondo deve ostacolare la vita di chi lavora nel proprio spirito per il beneficio di tutti. Dimmi, qual è il tuo problema?"
"In questo periodo," disse l'asceta, "stiamo svolgendo delle cerimonie sacrificali di grande importanza, ma due Rakshasa ci impediscono di portarle avanti, disturbando la procedura prevista. Essi gettano cose sporche e contaminate nell'arena che invece deve sempre essere tenuta pura. Io vorrei che i due malvagi, Maricha e Subahu, siano uccisi e che la pace torni nelle nostre vite."
"O Visvamitra," disse Dasaratha, "io stesso partirò oggi per porre fine alla vita dei due malfattori. Non temere. Presto i vostri yajna potranno riprendere tranquillamente come prima."
Ma il Rishi non sembrava contento.
"No, re virtuoso. Non voglio che tu venga. Ti chiedo di affidarmi i tuoi figli Rama e Lakshmana. Saranno loro a distruggere i Rakshasa."
"Rama e Lakshmana?" esclamò Dasaratha. "Ma sono poco più di due ragazzi."
Visvamitra lo guardò leggermente irritato.
"Lo so. Ma ho motivi validi per chiederti loro, e non te in persona o altri."
Dasaratha cominciò a sentirsi agitato. La missione era pericolosa, non voleva esporre a quei pericoli i suoi giovani figli, che amava tene­ramente.
"O saggio, io non sono mai stato sconfitto in battaglia. Non puoi du­bitare che io sia capace di ottenere il risultato. Non temere: io con il mio esercito distruggerò i due Rakshasa."
Vedendo Dasaratha agitato, Visvamitra aggrottò le sopracciglia, in­fastidito dalla mancanza di fede del re. La sua voce diventò ancora più cupa e profonda.
"Non pensi che io sia in grado di proteggere i tuoi figli? Io ho chiesto Rama e Lakshmana. Se non vuoi affidarmeli, dimmelo e me ne andrò al­l'istante."
Vedendo il saggio deciso nell'intento e pensando al grave pericolo che correvano i suoi figli, Dasaratha si sentì mancare. I suoi ministri ac­corsero per sorreggerlo. Si riebbe in tempo per sentire la voce grave di Visvamitra che tuonava.
"Quando sono entrato mi hai promesso che mi avresti dato qualsiasi cosa. Ma vedo che non vuoi mantenere la promessa!"
Si alzò e fece l'atto di andarsene col volto visibilmente irato, quando il sapiente Vasishtha lo chiamò, fermandolo.
"Grande Visvamitra, non essere adirato con il nostro re. Egli vuole sinceramente renderti servizio, ma ha paura per i ragazzi. Attendi ancora un momento, io gli parlerò. Lo convincerò ad avere fede nella protezione che saprai dare loro."
Il Rishi si fermò e Vasishtha si rivolse al re."Rama e Lakshmana non corrono alcun pericolo," lo ammonì. "Ri­cordati che Rama è nato per la distruzione di tutti i Rakshasa e che inol­tre è protetto da Visvamitra, il quale potrebbe uccidere egli stesso Mari­cha e Subahu se non fosse impegnato in quel sacrificio. Non preoccupar­ti. Manda con lui i tuoi figli a cuor sereno e presto li vedrai tornare vitto­riosi e radianti gloria."
Dopo mille incertezze, Dasaratha acconsentì.

In giornata Visvamitra, Rama e Lakshmana lasciarono Ayodhya e si addentrarono nella foresta. Gli uccelli, il vento, persino i colori sembra­vano cantare la stessa canzone di pace e di serenità. La foresta era di una bellezza straordinaria, celestiale, che conduceva con naturalezza a pen­sieri di virtù. I due fratelli erano sereni e seguivano il saggio con rispetto. In compagnia di quel Muni così erudito il viaggio si rivelò piacevole e istruttivo. Visvamitra raccontò molte storie e mostrò loro svariati luoghi santi, narrando sul posto storie avvincenti.
Dopo qualche giorno di cammino, i tre giunsero in un'altra parte della foresta. L'aria non era più la stessa, si respirava un'atmosfera tesa e de­moniaca; Rama avvertì subito che erano entrati in un luogo diverso, non sereno e tranquillo come gli altri. Qua e là giacevano le ossa di vari ani­mali e anche di uomini.
L'aria vibrava e metteva a disagio. Rama vide che anche Visvamitra aveva perso la sua allegria e la sua loquacità.
"Vedo che c'è qualcosa che ti preoccupa," gli chiese. "Io vedo chia­ramente sul tuo viso i segni del disagio. In questa parte della foresta l'at­mosfera non è più la stessa, non sento più gli uccelli cinguettare e non vedo neanche tanti animali. Dimmi. C'è qualcosa di particolare in questo luogo?"
"Si, è vero," ammise Visvamitra. "Questa foresta non è come tutte le altre perché da molti anni qui vive Tadaka, una terribile Rakshasi. Tu sai che generalmente questi esseri sono molto malvagi e provano piacere nel mangiare carne, specialmente quella umana, e nel bere sangue. Oltre a questo hanno molti poteri mistici e in combattimento sono valorosi."
   "Mi sembra di capire," replicò Rama, "che la presenza di costei è fon­te di sofferenza per molte persone. Vuoi che io faccia qualcosa a molte persone sito?' "Guarda queste ossa e senti il tanfo che c'è nell'aria," fu la risposta. "Neanche gli animali passano più per questi sentieri. Una volta questa era una foresta piacevole e piena di gioia. Tadaka l'ha fatta diventare un deserto squallido e orrendo. Per questo è bene che tu la uccida."
"Ho già sentito parlare di Tadaka," disse Rama incuriosito, "e vorrei sapere qualcosa a suo riguardo. Raccontami la storia della sua vita." Fermandosi sul posto, il Rishi guardò Rama e Lakshmana e con cal­ma raccontò.
"Una volta Tadaka non era l'orribile demone che è ora. E' diventata tale in seguito.
Ascolta:
"Una volta c'era uno Yaksha di nome Suketu. Era una persona dal cuore puro e gentile, ma non aveva figli e se ne rattristava. La sua divi­nità era Brahma e la serviva con grande devozione. Brahma fu soddi­sfatto della sua devozione e gli concesse una figlia dotata di una grande " forza fisica. Questa era Tadaka.        .
"Lei sposò Sunda ed ebbe un figlio di nome Maricha. In seguito Sun­da fu ucciso dal Muni Agastya e i due decisero di vendicare la morte del familiare. Venendo a conoscenza delle loro intenzioni, il saggio lanciò una potente maledizione e Tadaka e suo figlio Maricha diventarono Rakshasa crudeli e orribili.
"Sia Tadaka sia Maricha sono un pericolo continuo per la gente paci­fica. Il tuo dovere di kshatriya, quindi, è quello di ucciderla e di alleviare così le sofferenze degli indifesi."

Intenzionato ad agire come Visvamitra desiderava, con grande de­cisione Rama cominciò a fare rumore scuotendo i rami degli alberi, per attirare l'attenzione di Tadaka. Sentendo quei rumori molesti la demone, che non era lontana, si mise ad ascoltare cercando di capire quale potesse esserne la causa. Non riuscendo a capire cosa potesse fare così tanto fracasso, corse sul posto per vedere di persona. Lì vide i tre. Con voce che sembrava provenire da una caverna profonda disse:
"Chiunque tu sia, uomo temerario, sei arrivato nell'ora giusta. Ho fa­me e oggi la placherò con le tue carni."
Con grande irruenza Tadaka attaccò. Ma Rama si difese e dopo un breve combattimento la uccise. Appena la Rakshasi ebbe esalato l'ultimo respiro, Visvamitra abbracciò Rama e gli insegnò l'uso di certe armi ce­lestiali. Con queste Rama divenne ancora più forte nei confronti di qual­siasi nemico.

Durante il viaggio i tre arrivarono nell'eremo di Vamadeva e Vi­svamitra narrò la sua storia.
Finalmente Visvamitra, Rama e Lakshmana arrivarono nello stu­pendo luogo dove il saggio viveva e svolgeva le sue austerità e i suoi sa­crifici. Lì c'erano molti asceti impegnati nei servizi più disparati, e tutti emanavano una luce di purezza e di serenità. Quasi tutti vestiti di sem­plici stoffe di cotone arancione, avevano i capelli raggruppati in cima al­la testa. La scena era idilliaca e Rama si sentì felice e risollevato. Quanta spiritualità emanava da quel luogo! Quando un uomo stanco delle illu­sioni della vita materialistica desiderava volgersi dentro di sé per trovare il vero senso della propria esistenza, andava in uno di questi ashrama, o luoghi dove si praticava la vita spirituale. Gradualmente il bruciore dei desideri, della collera e dell'invidia si placava e una nuova coscienza sorgeva dal cuore. Era la coscienza di Dio, quella che rendeva realizzati nel sé. Nell'ashrama di Visvamitra si respirava una forte atmosfera spiri­tuale.
Visvamitra non voleva indugiare ancora e cominciò i preparativi per lo yajna. In poco tempo tutto fu pronto e la cerimonia ricominciò. Rama e Lakshmana si misero in guardia con attenzione, guardandosi intorno costantemente. Non mangiarono né dormirono per sei giorni e sei notti.
Al sesto giorno si udì un sordo brontolio provenire dal cielo. E mentre gli asceti continuarono imperterriti a recitare i mantra vedici e a gettare ghi nel fuoco sacro, Rama e suo fratello capirono che i demoni erano in arrivo. Si scambiarono uno sguardo di intesa. E dal cielo cominciarono a cadere oggetti immondi: pezzi di carne, sangue, interiora, urina, escrementi e ogni altro genere di sudiciume. Si udì una violenta e agghiac­ciante risata e la pioggia demoniaca aumentò. Rama reagì cominciando a scagliare frecce verso l'alto con una tale velocità da creare una gigante­sca cupola fatta di frecce attraverso la quale niente poteva filtrare. Mari­cha e Subahu si stupirono di ciò che stava accadendo e cominciarono a far cadere enormi macigni. Ma Rama respinse anche quelli. A quel punto i Rakshasa capirono di avere a che fare con un avversario degno di seria considerazione e smisero di giocare. Attaccarono dunque i due giovani principi.
Dopo un violento combattimento Rama uccise Subahu e scaraventò Maricha a molti chilometri di distanza, utilizzando l'arma chiamata va­yavya-astra, che creava un vento impetuoso. L'ultimo suono che si sentì fu il grido di rabbia di Maricha. I Rakshasa erano sconfitti, da quel gior­no in quella foresta la vita dei Rishi sarebbe stata molto più tranquilla.

I santi personificano i principi della religione e quando questi sono in pericolo Vishnu si incarna e li protegge. Questa è la sua solenne promes­sa.
Rama e Lakshmana erano contenti della riuscita del loro compito e quando il sacrificio fu terminato si presentarono davanti al saggio. "Quegli esseri malvagi sono stati sconfitti e non vi recheranno più al­cun disturbo. Dicci, cosa possiamo fare ancora per te?"
Visvamitra sorrise e chinò la testa in avanti esprimendo la sua felicità per il successo ottenuto e approvazione per l'atteggiamento umile dei principi. "Sapete, il re di Mithila, Janaka, sta per eseguire un grande sacrificio. Egli ha un arco che una volta era l'arma personale di Shiva. Poi il Dio la dette al re Devarata, che in seguito lo donò a Janaka. Ma non era un arco normale. Nessuno riesce neanche a impugnarlo, che dire di usarlo. Miei valorosi principi, se volete possiamo andare a Mithila ad ammirare l'arco di Shiva."
Di buon grado i due principi accettarono la proposta, e così riparti­rono. Passando per favolose foreste, attraversando freschi ed incontami­nati fiumi e ruscelli, parlavano di antiche storie di saggi e di Deva. Vi­svamitra raccontò vicende del suo albero genealogico e la stupenda storia della sua vita. Una notte raccontò anche la storia del fiume Gange e della sua discesa nei pianeti mediani e inferiori. Poi il piccolo gruppo ar­rivò nell'eremo dove viveva ancora Ahalya. Visvamitra raccontò la sua storia.

"Molto tempo fa questo eremo apparteneva al santo Gautama che, as­sistito dalla moglie Ahalya, praticava severe austerità. A quei tempi non esisteva donna più bella di lei, tanto che persino Indra, il re dei pianeti celesti, se ne invaghì. Un giorno in cui Gautama si era allontanato dall'e­remo, Indra decise di prendere le sue sembianze pensando di ingannare Ahalya, ed entrò nella capanna.
"Indra chiese alla donna di giacere con lui. Ahalya lo guardò. Si era accorta che non era suo marito, e aveva anche capito che si trattava di Indra, ma accettò. Dopo il rapporto sessuale Indra si sentì preso dal panico per paura che Gautama potesse tornare e trovarlo lì. Si alzò ve­locemente e fece per fuggire, ma inutilmente: Gautama era tornato, era già lì, dietro la porta. Vedendo Indra fuggire, capì l'accaduto e lo maledì con violenza:
"Tu sei entrato nel mio ashrama e prendendo le mie sembianze hai goduto del corpo di mia moglie. Per questo atto vile tu diventerai impo­tente."
"Mentre Indra fuggiva, Gautama si volse verso la moglie che tremava come una foglia per la paura. Guardandola intensamente, disse:
"E tu, cara moglie, tu non mi sei stata fedele. Tuttavia il mio sentimento per te non è mutato. Ti purificherai dal tuo peccato vivendo per molti anni in questo eremo con un corpo invisibile agli occhi degli uo­mini e mangerai solo aria. Dormirai in un letto di cenere e soffrirai di un rimorso senza limiti. Ma quando Rama, il figlio di Dasaratha, visiterà questo luogo tu sarai libera dalla mia maledizione e torneremo a vivere insieme."
"Ahalya fu felice di poter purificare così la sua colpa," continuò Vi­svamitra, "e di poter tornare un giorno a vivere felicemente con il marito. Indra riacquistò la capacità sessuale dopo molto tempo e fatica, ma A­halya ancora aspetta di essere liberata dalle sue pene. Spetta a te ridarle la pace. Entra quindi nell'eremo."
Appena Rama fu entrato vide davanti a sé una stupenda donna che lo guardava con occhi riconoscenti. Pochi istanti dopo apparve il saggio Gautama, che ringraziò di cuore il principe e poi, insieme, scomparvero.

Non erano trascorsi molti giorni dalla partenza quando entrarono a Mithila, decorata e pervasa da una grande aria di festa.
Visvamitra li condusse subito all'arena del sacrificio del re Janaka e si annunciarono. Pochi istanti dopo videro Janaka, accompagnato dai suoi ministri più importanti, uscire per riceverli personalmente. Offrì un puja al santo Visvamitra e gli lavò i piedi con grande umiltà. Dopodiché furo­no fatti accomodare. Janaka si rivolse a Rama.
"Caro giovane principe, tu conosci la storia dell'arco di Shiva?" Rama assentì.
"Sì. Visvamitra me ne ha parlato e sono anzi curioso di vederlo", ri­spose.
"Questo arco è così pesante," raccontò Janaka, "che nemmeno i re più potenti della terra sono stati neanche in grado di spostarlo. Io sono deciso a dare mia figlia Sita in sposa a chi riuscirà a impugnarlo e a porgli la corda."

II re raccontò in breve la storia della nascita della figlia e poi la fece chiamare.
Quando Sita entrò, Rama la guardò, come folgorato. Aveva già sentito parlare di lei, ma non si aspettava una donna simile. Sita ri­splendeva di una bellezza che non era di questo mondo, ma che proveni­va dal mondo dove le forme non hanno difetti o limitazioni. Non aveva mai visto una donna tanto bella. Oltre alla bellezza fisica, da Sita emana­va una luce profonda di castità e di santità e questo la rendeva ancora più irresistibilmente attraente.
E Sita guardò Rama; e appena lo vide il suo cuore cominciò a battere impetuosamente. Il principe era meraviglioso: aveva gli occhi simili ai petali dei fiori di loto, i capelli neri e lunghi che gli scendevano lungo le spalle, e ogni sua fattezza era un inno alla bellezza. Come i loro sguardi si incontrarono l'amore eterno che li legava si risvegliò e inondò i loro cuori.

Vishnu e Lakshmi si incontravano in un'altra circostanza, in un'altra situazione, uniti dallo scopo divino che era il fine di quella loro in­carnazione. Castamente, Sita abbassò la testa e arrossì. In cuor suo sperò che Rama desiderasse provare a sollevare l'arco e che ci riuscisse. Rama contemplava colei che era la sua compagna eterna e non riusciva a distogliere lo sguardo.
"Se me lo concedi vorrei vedere il sacro arco di Shiva," disse poi.
Janaka ordinò che l'arco fosse portato nel salone. Dopo poco, l'arma fu introdotta su un gigantesco carro tirato da dieci uomini.
"Guarda, o figlio di Dasaratha," proclamò Janaka. "Io ti ripeto l'offer­ta che ho già annunciato a tanti prima di te: se riuscirai a impugnarlo e a fissare la corda, io ti darò mia figlia Sita in sposa."
Rama cercò con lo sguardo il permesso di Visvamitra, il quale sor­ridendo mosse la testa affermativamente. II principe si avvicinò all'arco, lo guardò, lo toccò, gli offrì rispettosi omaggi e poi lo afferrò. Tutti trat­tennero il respiro. E tra lo stupore di tutti, Rama lo sollevò senza alcuno sforzo apparente. Nei pianeti celesti Shiva danzò in estasi e tutti i Deva manifestarono la loro gioia. Poi, per mettergli la corda, lo piegò in modo così energico che con un boato assordante l'arco si spezzò in due. Tutti persero coscienza, eccetto i saggi presenti, Janaka, Rama e Lakshmana. Con grande felicità il re concesse Sita a Rama.
La notizia dell'accaduto arrivò presto ad Ayodhya. Dasaratha fu felice che suo figlio sposasse la bellissima e casta Sita, famosa in tutto il mondo per le sue qualità, e fu anche felice di allearsi con un re potente e vir­tuoso come Janaka. Con le sue mogli, i suoi figli, i suoi ministri e con molti soldati, Dasaratha partì per Mithila.
Così Rama sposò Sita, e Lakshmana sposò la sorella di Sita. Janaka aveva un fratello di nome Kusadhvaja, il quale aveva due figlie. Bharata e Satrughna si unirono alle due figlie di Kusadhvaja.
Dopo che il matrimonio fu celebrato, Dasaratha salutò calorosamente Janaka e ripartì con il suo seguito, i suoi figli e le loro rispettive spose.
La giornata era bella e il sole era alto nel cielo. Tutto sembrava e­sprimere felicità e assenza di problemi. Sita e Rama, contemplandosi l'un l'altra, parlavano di mille cose. Ma anche in quel momento di gioia un pericolo era in agguato. E' probabilmente la natura stessa di questo mon­do: l'innocenza di ogni passo cela un pericolo potenziale.
All'improvviso si levò un forte vento e il cielo si oscurò: i cavalli, spaventati, nitrirono forte: Dasaratha guardò Sumantra.
"Questa non è una normale tempesta. La giornata è calma e pochi i­stanti fa non c'era un filo di vento. Ci sono molti segni che fanno pre­sagire un pericolo."
Anche Sumantra sentiva l'ansietà crescere in sé. "Sì, è vero. Qualcosa sta per accadere. Vigiliamo."
D'un tratto si fece buio. Si udì un tuono e tornò la luce del giorno. Il­luminato da una luce di gloria Parasurama, l'incarnazione divina che sterminò ventuno volte l'intera razza degli kshatriya, era davanti a loro, e teneva saldamente la sua ascia nella possente mano. I suoi occhi erano di fuoco, la sua figura e il suo stesso nome incutevano terrore a ogni guer­riero. Parasurama si era fermato in mezzo al sentiero e impediva loro di proseguire il cammino. I soldati di Dasaratha tremavano di paura, perché ben conoscevano la fama dell'invincibile Parasurama. I brahmana mor­morarono:
"Cosa vorrà da noi il figlio di Jamadagni? Vorrà forse ricominciare lo sterminio degli kshatriya? La sua vendetta è stata compiuta molto tempo fa; cosa potrà volere da noi?"
Prontamente Dasaratha scese dal carro e offrì tutti gli onori al bra­hmana che un giorno adottò la vita del guerriero. Ma era evidente che Parasurama aveva uno scopo ben preciso per fermare la colonna del re. E si sentì la sua voce, risoluta, solenne.
"Dov'è tuo figlio Rama?"
Rama fece un passo avanti e chinò la testa in segno di rispetto. Pa­rasurama lo guardò.
"Tu hai commesso il sacrilegio di rompere l'arco di Shiva e io devo punirti per questo."
Dasaratha era terrorizzato. Cercò di parlare al potente brahmana, ma egli lo ignorò: aveva occhi solo per Rama.
"C'è un arco simile a quello che tu hai spezzato," riprese Parasurama. "Quei due archi furono fatti da Visvakarma e servirono nel combattimento che doveva decidere chi fosse il più forte tra Vishnu e Shiva. Io non capisco come tu possa aver rotto quell'arco, ma voglio vedere se rie­sci a tenere anche solo nella mano l'altro."
Con un boato assordante l'arma di Vishnu comparve nella mano di Parasurama. Lo porse al principe, sereno nonostante l'incombente pe­ricolo. Rama lo prese senza sforzo alcuno, guardandolo con aria tran­quilla, priva di qualsiasi ansietà. Parasurama era stupito: come poteva quel giovane principe, dopo aver rotto l'arco di Shiva, tenere nella mano quello di Vishnu? Poi capì: solo Vishnu stesso poteva fare una cosa del genere. E i due scomparvero alla vista di tutti.
"Tu sei il Dio Supremo, Vishnu incarnato sulla terra," pregò Pa­rasurama con le mani giunte. "Perdona la mia impudenza: non sapevo chi fossi tu in realtà."
Rama pose una freccia sull'arco e tese la corda.
"Una volta incoccata, questa freccia non può più essere ritirata. Deve colpire e distruggere qualcosa. Dimmi, cosa vuoi che distrugga?" disse Rama con fermezza.
"Distruggi i pianeti che ho meritato con le mie austerità," fu la ri­sposta.
E la terribile freccia partì e distrusse quei pianeti. Offrendo i suoi o­maggi a Rama, il brahmana scomparve.
Finalmente Dasaratha vide ricomparire suo figlio, ma non riusciva a capire come fosse scampato a un simile pericolo. Poco dopo ripartirono, e giunsero ad Ayodhya, festeggiati dal popolo che li aspettava.

Qualche anno dopo Dasaratha mandò Bharata e Satrughna a Kekaya a trovare Yudhajit, lo zio materno. II glorioso principe Rama passò così dodici anni di felicità con la moglie Sita. I due erano inseparabili, mai potevano essere visti l'uno senza l'altra. In realtà non potevano sopporta­re neanche un momento di separazione. Come Lakshmi e Vishnu aumen­tavano la loro felicità e la loro bellezza stando l'uno accanto all'altra, Rama e Sita risplendevano sempre più non separandosi mai, neanche per un momento.

Ayodhiya Kanda
Gli anni passarono. Come sempre accade, pochi si accor­gono del trascorrere inesorabile del tempo che trascina via dalle mani le cose o le persone che più si amano. Il tempo porta via principalmente la gioventù, la vita, che è la cosa più importante, visto che tutto il resto vi si inserisce. Dasaratha era una persona intelligente e spiritualmente avanzata, ma neanche lui si accorse che la vecchiaia si avvicinava, finché la prime infermità cominciarono a minare il suo corpo, non più possente come una volta. I primi dolori cominciarono a farsi sentire. Un vago senso di stanchezza nei confronti della vita politica e familiare cominciò ad affiorare e pensò che fosse arrivato il momento di rinunciare a tut­to per andare a passare gli ultimi anni della vita nella foresta.
Un giorno riunì i suoi consiglieri. C'era una certa gravità nell'aria. "Cari amici," esordì. "Sto diventando vecchio. Non ve ne siete accor­ti? Nessuno di voi me lo ha mai detto. Le prime infermità cominciano a minare l'efficienza del mio corpo. A questo punto credo che la cosa più saggia da fare sia quella di nominare Rama principe ereditario e fra breve ritirarmi nella foresta in meditazione. E' sempre stata, questa, la maniera migliore di passare gli ultimi anni della vita. E' l'eterno sentiero, il dove­re di ogni re. Rimanere attaccati agli agi e alle opulenze di corte fino al­l'ultimo è un disonore che non desidero. Che cosa ne pensate?"
"E' sempre un momento doloroso quello in cui un re virtuoso come te lascia il trono," rispose per tutti Sumantra, "ma è perfettamente vero che questo è il dovere religioso dello kshatriya, e noi pensiamo che la tua de­cisione sia corretta. Riguardo a Rama, il popolo lo ama incondizionata­mente e saranno tutti molto contenti di salutarlo come futuro re."
Contento di sentire quelle parole, lo stesso giorno Dasaratha dette le disposizioni per preparare la cerimonia dell'investimento di Rama. Quando i cittadini lo vennero a sapere, la loro gioia esplose in mille fe­steggiamenti, in attesa dell'incoronazione. La città fu ripulita e lavata con acqua di rose e addobbata a festa con bandiere, manifesti e ogni altra de­corazione. Si respirava un'aria di felicità quasi frenetica. Ma le strade del destino sono spesso imponderabili, e in quei momenti nessuno poteva immaginare cosa riservasse il futuro.

Molti anni prima la regina Kaikeyi aveva adottato una bambina gobba e orfana, incontrata nella casa del suo zio materno. Il suo nome era Man­thara e le era stato dato il compito di accudire le stanze private della re­gina. Nonostante il carattere talvolta aspro e spesso invidioso della sua governante, Kaikeyi si era affezionata a lei. Quel giorno Manthara vide il fermento caratteristico delle occasioni di festa e immaginò che qualcosa di importante stesse per accadere. La gente era particolarmente felice e rideva e scherzava per le strade anche per ragioni futili. Si chiese cosa stesse per succedere. In un momento in cui si trovava con Kaikeyi, glielo chiese.
"Vedo che tutti si stanno preparando per qualche grande evento, ma non sono ancora riuscita a sapere cosa si festeggerà. Mia cara regina, tu ne sarai al corrente: di cosa si tratta?"
Kaikeyi la guardò con espressione gentile.
"Ma come, non sai nulla? Oggi per noi è un giorno di grande gioia. Dasaratha sta per proclamare Rama principe ereditario. Presto l'amato Rama diventerà il re di Mithila."
Sentendo questo, Manthara s'incupì e strinse le labbra, presa da una violenta rabbia.
"Rama sarà incoronato principe ereditario?" quasi gridò. "E dovrei esserne lieta? Ma come fai tu a essere felice in un giorno così funesto per te? Hai tutte le ragioni per essere infelice, invece."
Kaikeyi pensò che stesse scherzando.
"Via Manthara," le rispose cercando di sdrammatizzare. "E' un gior­no così bello, perché mai dovrei essere infelice?"
Manthara, goffa nella sua deformità, sembrava arrabbiata davvero e la regina capì presto che non stava scherzando.
"Un giorno così bello? Ma cosa pensi che succederà a te e a tuo figlio Bharata il giorno in cui il re lascerà il corpo? Ragiona. Questo è il giorno della tua sconfitta. Quando Rama sarà incoronato tu sarai certa di non poter mai essere la madre di un re, e mai nessuno ti mostrerà rispetto."
Kaikeyi non prendeva ancora molto sul serio le parole della sua go­vernante.
"Ma tu sai bene," rispose, "che Rama è nato prima di Bharata e quin­di, secondo le consuetudini, è l'erede di diritto. Inoltre non credo che nessuno mai mi mancherà di rispetto. Rama è un giovane nobile e pre­muroso e mi ha sempre amata alla stessa maniera di come ha amato la sua stessa madre."
Manthara divenne rossa in viso, ora gesticolava.
"No, non sarà più così nel futuro. Rama ti tratterà come una serva e cercherà di uccidere Bharata perché sa che un fratello minore valoroso è un pericolo costante. Questa è la politica del potere, è sempre successo così. E poi, dopo aver ucciso tuo figlio, ti caccerà dalla corte e ti esilie­rà."
Kaikeyi non credeva che Rama avrebbe mai potuto comportarsi in un modo tanto atroce, ma Manthara era così insistente e portò così tanti ar­gomenti che alla fine la regina si convinse. Pensò che avrebbe dovuto fa­re qualcosa per il suo bene e per quello di Bharata. Il pensiero del figlio seduto sul prestigioso trono di Ayodhya aveva acceso in lei uno strano fervore.
"Sì, è vero. Dobbiamo impedire l'incoronazione di Rama. Io voglio vedere mio figlio sul trono. Ma cosa possiamo fare? Rama ha il diritto per nascita. Non vedo una soluzione."
Manthara, a quelle parole, ebbe una smorfia di trionfo.
"Devo forse ricordarti ciò che accadde tempo fa? Tu stessa me lo hai raccontato. Ricordi quando accompagnasti tuo marito in quella battaglia dove i Deva combatterono contro gli Asura? Ricordi che il re fu ferito e che tu gli salvasti la vita guidando il carro fuori del campo di battaglia? Allora il re ti promise di soddisfare due tuoi desideri, qualunque fossero. Tu a quel tempo non avevi particolari desideri, ma lui insistette, così tu dicesti:
"Ora non ti chiedo nulla per me, ma nel futuro potrei avere qualche desiderio da soddisfare: promettimi che in qualsiasi momento te li chie­derò tu me li concederai."
"Dasaratha promise. E tu finora non gli hai mai chiesto nulla. Kai­keyi, questo è il momento. Chiedi al re due cose: che mandi in esilio Rama nella foresta per quattordici anni e che nomini Bharata principe ereditario."
La regina rimase turbata a quel pensiero. Esitò un istante. Non era si­cura che quella fosse la cosa giusta. Ma l'ambizione e l'insistenza di Manthara ebbero la meglio e cedette al piano diabolico.
Cosa successe nel cuore di Manthara? E in quello virtuoso di Kai­keyi? Chissà. Certo l'ambizione è una cattiva consigliera quando non controllata. Bharata stesso, pur nel suo dolore, riconobbe che Manthara e Kaikeyi erano solo gli strumenti di un destino imperscrutabile.
"Vai subito nella stanza dove ci si chiude quando si hanno dei crucci e spargi in terra i tuoi gioielli. Quando Dasaratha verrà a cercarti deve trovarti lì, e vedrai che ti chiederà il motivo della tua afflizione. Allora tu digli cosa vuoi da lui. Va', presto, il re potrebbe arrivare."

Kaikeyi andò nella stanza della collera e si sdraiò sul pavimento, fin­gendosi in preda alla disperazione.
Poco dopo Dasaratha andò a trovare la moglie. Aveva appena finito di dare istruzioni per la cerimonia imminente, il suo cuore era pieno di gioia e voleva condividerla con lei. Entrò nella sue stanze private, ma stranamente non c'era. La cercò ovunque, ma non riuscì a trovarla. Allo­ra Dasaratha chiese alle ancelle se sapevano dove la regina fosse andata e fu informato che era nella stanza della collera.
Il buon re era sorpreso. Perché mai la sua moglie preferita era entrata in quella stanza? Cos'era successo? Kaikeyi aveva sempre avuto tutto ciò che voleva, non le mancava proprio nulla. Cosa la rendeva infelice? Da­saratha si affrettò ad andare nella stanza e la trovò lì, distesa in terra, con i gioielli sparsi ovunque, col volto incupito dal dolore. Dasaratha era sorpreso.
"Mia cara sposa, cosa fai in questa stanza e perché stai lì in terra? Co­sa ti rende infelice? Lo sai che per te sarei pronto a fare qualsiasi cosa pur di vederti felice. Spiegami cosa è successo."
Con la voce rotta dal pianto disse:
"Ricordi quando ti salvai la vita? In quel giorno tu mi promettesti di concedermi due desideri."
Dasaratha sorrise.
"Ma certo che ricordo. Io ho sempre mantenuto le mie promesse, e si­curamente farò così anche con te adesso. Se hai qualche desiderio chiedi, e ti soddisferò immediatamente."
"Sì, ora ho due desideri da chiederti," replicò lei. "Ma voglio che prima tu mi dica ancora che sei pronto a fare qualsiasi cosa per me."
Il re rispose con tono affabile.
"Mia cara Kaikeyi, sono pronto proprio a tutto pur di vederti felice."

Sentendo queste parole Kaikeyi si fece forza e indurì il suo cuore. Non le fu facile, perché Kaikeyi era una donna dolce e amorevole. "Voglio che tu mandi Rama in esilio nella foresta per quattordici anni e che al suo posto nomini Bharata erede al trono."
Il re non poteva credere a ciò che aveva ascoltato; forse non voleva crederci. Ma forse lei stava scherzando, pensò. Forse era un equivoco. Kaikeyi aveva sempre amato Rama e Rama era stato sempre affettuoso con Kaikeyi. Perché dunque doveva odiarlo tanto? Sul momento Dasara­tha non riuscì a dire niente.
"Kaikeyi, cosa stai dicendo?" ansimò infine. "Non posso esiliare Rama. Cosa ti è successo? Perché mi stai chiedendo una cosa simile?"
La regina reagì con veemenza.
"Tu hai fatto una promessa. Le prime regole morali di un re sono la veridicità e l'onestà. Io ti chiedo di esiliare Rama e di nominare Bharata principe ereditario."
Aveva quasi gridato, con rabbia, con furia, quasi con odio. Non era più la stessa dolce Kaikeyi, era un'altra persona. Chi era? Come fare per convincerla che stava chiedendo una cosa assurda? Vedendolo stupefatto e incapace di reagire e di accettare la realtà, Kaikeyi gli ripeté la richiesta diverse volte. E quando il povero monarca comprese che la moglie face­va sul serio, il dolore gli fece perdere la coscienza. Poi si riprese e cercò pazientemente di dissuaderla dal suo crudele proposito, ma non servì a niente. Kaikeyi era decisa. Quelli erano i suoi desideri.
Per tutta la notte Dasaratha cercò di convincere la moglie, ma il sole che si affacciò da dietro l'orizzonte trovò Dasaratha in preda alla di­sperazione. Vedendo che il marito non aveva il coraggio di farlo, Kai­keyi chiamò un'ancella e la incaricò di convocare Rama e di farlo venire nei suoi appartamenti, dicendogli che suo padre voleva vederlo.

Quando l'ancella gli riferì il messaggio, Rama rimase un poco sor­preso da quella chiamata a un'ora tanto insolita, tuttavia uscì subito e si affrettò dal padre.
Entrò nella stanza di Kaikeyi e subito si accorse che era successo qualcosa di grave. Dasaratha era sconvolto, aveva gli occhi cerchiati e arrossati dal pianto. Fissava il pavimento: non aveva il coraggio di guardare gli occhi del figlio, così simili ai petali del fiore di loto. Kaikeyi a­veva una strana espressione di crudele trionfo negli occhi. Ma tutta l'at­mosfera era strana, insolita. Rama era sorpreso e dispiaciuto dall'evidente dolore del padre.
"Ti vedo molto addolorato," gli disse. "Cosa sta succedendo? Quali sono i motivi che ti rendono tanto sofferente? Nel tuo regno va tutto be­ne, la gente ti ama e ti rispetta. Cosa c'è che non va?"
Dasaratha non riusciva a parlare, teneva sempre gli occhi bassi e ave­va un'espressione terrorizzata, quasi vedesse in quel marmo immagini mostruose che lo minacciavano di chissà quali pericoli. Il suo cuore era pieno di dolore. Senza alcuna pietà Kaikeyi rivelò tutto a Rama. Ma con grande sorpresa, il principe non batté ciglio, e anzi sorrise come se nulla fosse successo.
"Mio caro padre," disse con voce dolce, "non addolorarti per me. Io accetto l'esilio con la stessa gioia con cui avrei accettato l'incoronazione. Non preoccuparti. Passerò questi quattordici anni nella foresta in compa­gnia di santi e asceti e mi arricchirò della loro conoscenza spirituale. I­noltre li proteggerò dagli esseri malvagi e così renderò loro un prezioso servizio. E quando saranno trascorsi questi anni tornerò da te, anche se non potrò essere il re. Sappi che non ho alcun attaccamento per le gioie di questo mondo, che spariscono più velocemente di quanto vengano e sono solo causa di ansietà. Sono felice lo stesso, padre, non angustiarti per me."
Dasaratha conosceva bene suo figlio, si aspettava quella reazione, e la sua bontà lo addolorò ancora di più. Forse avrebbe preferito che Rama avesse reagito violentemente, o che l'avesse ucciso, vistosi privato del suo diritto. Dasaratha si chiese se avrebbe potuto vivere senza il suo fi­glio prediletto.
Con un sorriso, Rama uscì dalla stanza. Quando vide che si allon­tanava, Dasaratha svenne. Avrebbe voluto ribellarsi alla crudele moglie, avrebbe voluto correre da Rama e dirgli che rinunciava persino al suo onore, alla parola data, pur di non separarsi da lui, ma non se la sentiva. Sapeva che Rama stesso non avrebbe approvato un comportamento simi­le. Uno kshatriya non doveva mai venire meno alla parola data, a qual­siasi prezzo; queste erano le ingiunzioni dei Veda, e un re doveva dare l'esempio di obbedienza. Se non si fosse comportato così, nessuno a­vrebbe più seguito le leggi e tutto sarebbe sprofondato nel caos. Non do­veva essere la causa dalla sofferenza di tanti innocenti; meglio soffrire da solo.

Rama non aveva alcun attaccamento per la gloria o la felicità che si possono ottenere in questo mondo. Meditando sul mondo spirituale e sul­la Suprema Personalità di Dio, si recò prima di tutto dalla madre e le comunicò la terribile notizia. Con il cuore affranto dal dolore, Kausalya lo abbracciò e gli augurò ogni fortuna. Poi Rama andò dal fratello La­kshmana e gli dette la notizia. Lakshmana non poteva credere alle sue orecchie.
"Tu in esilio? Non posso crederci."
Rama gli raccontò i dettagli, di Kaikeyi e di Manthara, del complotto di cui era rimasto vittima. Lakshmana sentì il cuore esplodere dalla rab­bia.
"Come puoi accettare una simile ingiustizia? Reagisci! Manda in esi­lio nostro padre Dasaratha, che si è dimostrato troppo debole e troppo succube di Kaikeyi. E che ci vada con lei in esilio. Se non te la senti, dammi solo un cenno e io, con la mia spada, li costringerò a partire im­mediatamente."
Rama era infastidito dalle parole aspre del fratello.
"Lakshmana! Come puoi parlare di nostro padre in questi termini? E anche di Kaikeyi! Non parlare così di loro. Dasaratha non è attaccato al trono, né a nient'altro. Dimentichi che stava per incoronarmi e andarsene nella foresta? Anche se stanno commettendo un'ingiustizia noi dobbiamo sempre amarli e rispettarli. Nostro padre è costretto dalla sua etica di kshatriya e Kaikeyi agisce sicuramente sotto il volere supremo di Dio! Abbi fede, quindi, e non addolorarti."
Ma Lakshmana era inconsolabile e ansimava, come chi non riesce a controllare la propria rabbia. Insistette molto per accompagnarlo nella foresta e alla fine Rama dovette accettare.

Poi si recò da Sita e raccontò anche a lei il drammatico avvenimento. "Partirò oggi stesso. Io vado nella foresta, e tu non potrai accompa­gnarmi. Lakshmana verrà con me e mi aiuterà."
Con un filo di voce, Sita disse:
"Tu sei mio marito e ho promesso di stare con te e di servirti in ogni circostanza. Io non posso vivere senza di te neanche per un giorno: come posso non vederti per quattordici anni? Cosa vuoi che mi importi delle gioie della vita regale se tu non sei qui a goderne con me? Non dubitare, io verrò con te. E se non mi vorrai io ti seguirò da presso e ogni volta che avrai bisogno di me io accorrerò."
Rama cercò di far desistere Sita dalla sua decisione, ma non fu possi­bile. Infine acconsentì.

Dopo aver salutato i parenti e gli amici, i tre si tolsero sete e gioielli regali, si vestirono con i semplici abiti degli eremiti e uscirono dal pa­lazzo. Destinazione: la foresta.
La terribile notizia dell'esilio di Rama si era già diffusa in tutta la città e quando uscì dal suo palazzo si trovò dinanzi una folla sterminata. I cit­tadini si erano riuniti alle porte della città per vederlo partire e per mani­festare il loro dolore. Appena videro Rama e Lakshmana vestiti da ere­miti e la dolce Sita che li seguiva fedelmente, tutti cominciarono a la­mentarsi, addolorati da quella vista pietosa e ingiusta. C'era un forte bru­sio che, quando i tre passarono in mezzo alla folla, divenne un tumulto.
"Rama, noi non sappiamo perché questo crudele re Dasaratha ha vo­luto esiliarti nella foresta," gridarono molti, "ma possiamo forse intuirlo. Siamo certi che è stata colpa della regina Kaikeyi, che è troppo attaccata a Bharata. E sappiamo anche che il re è troppo attaccato a lei. Ma noi non vogliamo vivere in un regno governato da un re troppo succube delle sue mogli, perché questo non è bene per la nostra evoluzione interiore. Permettici di venire con te nella foresta. Se noi tutti veniamo con te, la foresta sarebbe trasformata in un regno. E quello che ora è un regno di­verrebbe una foresta. Noi vogliamo che sia Dasaratha ad andare in esilio e che tu regni con giustizia su tutti noi."
Rama osservò questa patetica manifestazione di affetto e sorrise, ma si preoccupò che la pace continuasse a regnare anche dopo la sua parten­za. Così parlò in modo che tutti potessero sentirlo.
"Non dovete pensare male del vostro re, di mio padre, che è solo lo strumento di un misterioso destino. E neanche della mia matrigna Kaike­yi che ha causato tutto questo. Noi tutti siamo nelle mani di un Dio su premo e benigno che muove tutto. Solo il tempo ci farà comprendere perché tutto ciò sta accadendo. Tornate nelle vostre case. Non seguitemi. Lasciate che io liberi mio padre dalla promessa che ha fatto a Kaikeyi. Terminato il periodo di esilio io tornerò e regnerò su di voi."
Alla fine i cittadini di Ayodhya, col cuore rattristato dall'ingiustizia perpetrata, tornarono nelle loro case. Rama, Lakshmana e Sita si ad­dentrarono nella foresta.


Scese la sera. Rama e i suoi fedeli compagni avevano camminato per tutto il giorno. E arrivarono nell'eremo del saggio Bharadvaja, il discepo­lo di Valmiki, non lontano dalla confluenza del Gange con lo Yamuna. Dopo aver offerto i dovuti rispetti al saggio, Rama gli parlò.
"La tua fama di saggio che ha i sensi sotto completo controllo è diffu­sa in tutto il mondo. Noi sappiamo che hai viaggiato molto e che conosci innumerevoli luoghi santi e incantevoli. Dove ci consiglieresti di andare a trascorrere i nostri quattordici anni di esilio? Qual'è la terra più bella che conosci?"
"Seguite le mie indicazioni," replicò Bharadvaja, "e arriverete nei pressi di una collina chiamata Citrakuta. E' un posto meraviglioso, ricco di tutte le bellezze della natura."
I tre ripresero il cammino e in breve tempo scorsero Citrakuta. Era veramente bella come Bharadvaja l'aveva descritta. Lì c'era l'eremo di Valmiki e andarono subito a offrire i rispettosi omaggi al saggio. Poi de­cisero di costruire una capanna nelle vicinanze e Lakshmana si dette su­bito da fare. In poco tempo la capanna fu costruita e cominciò così un periodo di serenità.

Sumantra aveva accompagnato Rama fino all'eremo di Bharadvaja e poi da lì ritornò ad Ayodhya per dare le ultime notizie al re. Dasaratha era cupo, triste, assorto in chissà quali pensieri. Ascoltò il racconto dell'i­tinerario del figlio senza dire una parola. Poi si alzò e si ritirò nelle sue stanze.
Non riuscì a chiudere occhio. Davanti a sé si susseguivano miriadi di immagini e fra tutte il viso di Rama era predominante. All'improvviso sussultò: un ricordo gli era balenato nella mente e gli strappò lacrime co­centi. Ecco, ora ricordava il motivo per cui stava soffrendo così amara­mente. Si alzò e chiamò la sua prima moglie, Kausalya, la madre di Rama. La fece sedere sul letto e la guardò, quasi volesse scusarsi per ciò che aveva fatto. Lei lo guardò con affetto, senza rancore.
"Sento il bisogno," le disse Dasaratha, "di raccontare a te e a nessun altro una storia che mi accadde in gioventù. Non riesco più a tenerla per me solo. In realtà questo episodio lo avevo quasi dimenticato, ma ciò che è accaduto in questi giorni maledetti me l'hanno reso ancora nitido nella memoria. Ascoltami.

"Nella mia giovinezza io appresi l'arte di tirare con l'arco. Imparai co­sì bene che potevo colpire un bersaglio solo ascoltando il suono prodotto da esso. La gente mi chiamava `colui che colpisce il suono'. Durante quei giorni commisi un errore imperdonabile, del quale sto ora scontando le reazioni. Era la stagione delle piogge. Un giorno andai a caccia, e quando il sole tramontò io continuai a cacciare. La notte era scesa, e io vagavo in cerca di una preda. D'un tratto sentii un fruscio che proveniva dal ruscello, un rumore simile a quello della proboscide di un elefante che beve acqua. Così pensai che si trattasse di un animale e scagliai una freccia. Ma non fu il barrito di un elefante quello che mi rispose, ma il grido soffocato di un uomo. Corsi sul luogo e lì, mortalmente ferito, vidi un giovane eremita.
"O re," mi disse lui con un filo di voce, "io non so perché tu mi abbia colpito, ma ora sto morendo. Non mi preoccupo della mia vita, che è comunque effimera, bensì per i miei anziani genitori che non potranno sopravvivere senza di me. Tu sei crudele perché hai ucciso un eremita indifeso, ma promettimi di andare da loro e di dargli la notizia della mia morte."
"Così il giovane asceta morì. Io corsi a cercare i suoi genitori e non ci misi molto a trovarli. Inorridii quando mi accorsi che non solo erano molto vecchi, ma anche ciechi. Quando diedi loro la tremenda notizia non dissero nulla, ma il dolore traspariva visibilmente. Poi eseguirono i riti funebri per il figlio e presero la drammatica decisione di rinunciare alla loro vita suicidandosi nella pira funebre.
"Prima di entrare nel fuoco mi maledissero:
"Un giorno anche tu proverai il profondo dolore di essere separato da tuo figlio."
"Ora, ora la maledizione degli asceti diviene tragicamente vera." Dasaratha singhiozzava. Poi guardando la moglie disse quasi in un rantolo:
"Kausalya, io non posso sopportare il dolore della separazione da Rama."
In quella angoscia Dasaratha passò la notte, ma il suo cuore non resse a tanta sofferenza, e allo spuntare del giorno si fermò.

La morte del re fu un duro colpo per i cittadini di Ayodhya, già pro­vati dal dolore della separazione da Rama. Il re, nonostante l'accaduto, era molto amato dal popolo. Quel giorno stesso i ministri si riunirono per discutere della difficile situazione.
"Il re Dasaratha è morto questa mattina, Rama e Lakshmana sono già partiti per la foresta e a quest'ora saranno troppo lontani. Bharata e Sa­trughna sono a Kekaya. Un regno, e anche una città, che rimanga senza un governo anche per un solo giorno rischia la distruzione. Dobbiamo quindi trovare subito una soluzione, anche temporanea, al problema."
La cosa più logica sembrò quella di richiamare con urgenza Bharata e Satrughna ad Ayodhya. Così furono inviati dei messaggeri.
Quel giorno Bharata si era svegliato depresso. Aveva avuto numerosi incubi e non si sentiva per niente tranquillo. Più di una premonizione lo avevano avvisato di qualche tragedia incombente. Chiamò i suoi amici più intimi e si confidò con loro.
"Questa è stata una notte tremenda, piena di incubi e di segni pre­monitori malefici. Eppure sembra che tutto vada bene. Spero che anche ad Ayodhya tutto stia procedendo per il meglio, che il mio caro padre Dasaratha e il mio amato fratello Rama stiano bene e che non sia succes­so nulla di spiacevole."
Proprio mentre diceva queste parole arrivò un messaggero che subito chiese di lui. Bharata lo ricevette immediatamente, allarmato da quell'ar­rivo così inatteso.
"Nobile Bharata," disse l'inviato, "ho un messaggio per te da parte dei saggi di Ayodhya. Ti pregano di tornare subito alla capitale, senza perde­re tempo."
L'ignaro Bharata fu turbato da tanta premura. Allora era vero, quelle premonizioni non erano frutto della suggestione; qualcosa era successo.

"Perché tutta questa fretta?" chiese ansiosamente. "Cos'è accaduto? Ora sono certo che sta succedendo qualcosa di grave. Dimmi, non farmi stare in ansia."
Al messaggero era stato ordinato di non dire nulla, ma Bharata in­sistette.
"E' forse successo qualcosa a mio padre? O forse qualcosa a Rama? Non vedi come sono angosciato? Dimmi cosa è accaduto."
Ma il messaggero aggirò il problema molto diplomaticamente e lo pregò solo di partire immediatamente. Dopo poche ore Bharata e Sa­trughna lasciarono Kekaya con grande urgenza.
Quando i due fratelli entrarono nella città, la trovarono misteriosa­mente deserta e triste. Si guardarono attorno e un profondo senso di tri­stezza li colse. Bharata guardò Satrughna. Anche lui era angosciato.
"Vedi?" disse Bharata. "Le strade sono vuote e quella poca gente che circola è triste e non ci saluta. Sembra che tutti vogliano evitare i nostri sguardi."
"Sì, vedo," replicò Satrughna. "Non c'è dubbio: è accaduto qualcosa di grave. Facciamo presto. Voglio sapere, non riesco più a tollerare il pe­so di questo mistero."
Innanzi tutto Bharata cercò sua madre Kaikeyi e non trovandola nei suoi appartamenti andò nel salone delle riunioni del palazzo. La trovò là. Appena lo vide, lei si alzò, presa da una grande gioia e lo abbracciò con trasporto. Ma Bharata era troppo preoccupato. La respinse con gentilez­za.
"Madre, cosa sta succedendo? Perché questa atmosfera cupa e triste? Perché nessuno mi ha salutato quando sono entrato in città? E dov'è mio padre? Dove sono i miei fratelli Rama e Lakshmana? Sono in preda al­l'ansia e voglio sapere subito cosa sta succedendo."
Senza alcun segno di rimorso, con un lampo di trionfo negli occhi, Kaikeyi rispose.
"Figlio mio, tuo padre ha lasciato le sue spoglie mortali ed è salito ai pianeti celesti. Tuo fratello Rama, invece, è in esilio nella foresta con Lakshmana e Sita."
Non riusciva a credere a quelle parole. Suo padre morto? Rama, La­kshmana e Sita nella foresta? E perché? Appena si fu ripreso dallo sgo­mento pianse amaramente.
"Mio padre morto e Rama nella foresta con Sita e Lakshmana! Ma come è potuto accadere? Fino a poco tempo fa non era malato e tutto an­dava bene. Cosa è andato a fare Rama nella foresta? Spiegami tutto."

Kaikeyi raccontò tutta la storia, a cominciare dal giorno in cui Rama doveva essere incoronato, riferì i consigli di Manthara, le sue richieste a Dasaratha e narrò la partenza di Rama e la morte del re.
"Ora, figlio diletto," concluse, "sei tu il re e puoi godere del regno senza alcun nemico. Tuo fratello non potrà insidiarti il trono per quattor­dici anni e l'esercito ti è fedele. Rallegrati, quindi."
Mentre parlava, Kaikeyi si accorse che il figlio non era molto sod­disfatto. Bharata ascoltava senza dire nulla, ma ad ogni parola la sua ten­sione cresceva, e sembrava sul punto di esplodere. Una collera sempre più grande e incontrollabile si impadronì del giovane principe. Satrughna alle sue spalle era furibondo. Poi la sua rabbia esplose.
"Kaikeyi, donna malvagia, tu non mi conosci per nulla. Io non ambi­sco a questo trono e non sono interessato né al regno né a nient'altro in questo mondo. Per tutte queste cose, che io reputo illusorie e indegne, tu hai ucciso mio padre e hai fatto soffrire Rama, che io adoro come un Dio."
Kaikeyi tremò davanti alla rabbia violenta di Bharata. Anche Sa­trughna alle sue spalle aveva un aspetto sempre meno pacifico. La voce di Bharata era dura e tagliente.
"Dovrei ucciderti per ciò che hai fatto, ma sei una donna inerme e sei mia madre. Per questo ti lascio la vita, questa vita che passerai nei rimor­si più atroci. Io non accetterò mai questo regno. Sappi che dopo aver ce­lebrato i funerali di mio padre andrò a cercare Rama nella foresta, lo ri­porterò indietro e gli consegnerò il trono che gli spetta di diritto. E per mantenere la promessa che Dasaratha ti ha fatto andrò io nella foresta al suo posto."


Terminate le cerimonie funebri in onore di Dasaratha, Bharata si con­sultò con il fratello Satrughna e con i saggi di corte. Nel corso del colloquio Satrughna non riuscì più a contenersi e volle gettarsi su Manthara per ucciderla, ma Bharata glielo impedì.
Al mattino del quattordicesimo giorno dalla morte di Dasaratha, Bha­rata annunciò la sua partenza. Davanti alla folla riunita intorno al palaz­zo, comunicò a tutti che sarebbe andato a cercare Rama e che l'avrebbe riportato ad Ayodhya. I cittadini furono molto contenti di quella saggia e virtuosa decisione e sentirono rinascere la speranza. I preparativi per la partenza iniziarono immediatamente. Bharata portò con sé un imponente esercito e anche la madre, Manthara e le altre mogli di Dasaratha. Ven­nero i principali ministri e i saggi di corte.
Ripercorsero la stessa strada che Rama aveva fatto non molti giorni prima, finché arrivarono nell'eremo del Rishi Bharadvaja. Il saggio in­trattenne l'intero esercito, provvedendo al cibo e all'alloggio grazie ai suoi poteri mistici. Dopo averli rifocillati, Bharadvaja volle conoscere le loro intenzioni.
"Giovane principe Bharata," gli chiese. "Quali sono le tue intenzioni nei confronti di Rama? Spero che tu non abbia cattivi intenti, perché commetteresti un'azione empia."
Con tono umile, Bharata raccontò tutto l'accaduto nei minimi par­ticolari.
"O grande saggio," concluse il buon principe, "non pensare che il complotto sia stato ordito con la mia approvazione. Io ero ignaro di tutto e lontano da Ayodhya. E non credere neanche che io sia venuto fin qui per distruggere colui che potrebbe diventare un pericolo per il mio pote­re. E' il contrario. Io sono venuto per riportare il mio adorato Rama ad Ayodhya e restituirgli ciò che gli spetta di diritto. Gli autori del misfatto sono questa donna infida, mia madre, e dalla sua degna serva Manthara."
"Sono contento di sapere che non hai cattive intenzioni nei riguardi di Rama," disse Bharadvaja. "Puoi essere sicuro che in caso contrario io ti avrei maledetto. Rama è a Citrakuta, lo troverai lì. Per quanto riguarda tua madre, non serbarle rancore. Io posso assicurarti che è stata solo lo strumento di un destino che alla fine porterà benefici a tutti."
Dopo aver conversato ancora un poco, Bharata salutò rispettosamente il saggio e si diresse verso Citrakuta.


L'esercito si trasferì immediatamente sulla riva destra del Gange e presto Citrakuta divenne visibile. Bharata fece fermare l'esercito e decise di procedere a piedi, accompagnato da pochi altri.
In quel momento Rama si era accorto di una grande nube di polvere all'orizzonte e si allarmò.
"Lakshmana," chiamò. "Guarda quella gigantesca nube di polvere e ascolta questo tumulto del tutto simile a quello dei cavalli e degli elefan­ti. Questo è un esercito che si avvicina. Forse è un re nemico. Sali su un albero e scopri l'origine di questa agitazione."
Prontamente Lakshmana si arrampicò su un albero e scrutò l'oriz­zonte. Si accorse che si trattava veramente di un esercito e riconobbe le insegne delle milizie di Bharata.
"Rama," gridò agitato, "è proprio un pericolo che si sta avvicinando! E' l'esercito di Bharata. Ecco il suo piano diabolico: prima ha mosso la madre contro di te e ti ha derubato del regno, e ora vuole ucciderti per goderselo in pace."
C'era quasi gioia nella voce di Lakshmana, la gioia amara della ven­detta imminente.
"Prepariamoci a combattere. Oggi il fratello traditore conoscerà il prezzo che deve pagare chi commette azioni malvagie. Oggi è l'ultimo giorno della sua vita."
Rama si era tranquillizzato; era sereno, quasi sorridente.
"Non pensare così male di Bharata. Sono sicuro che lui non ha colpa di ciò che è accaduto. Certamente è stata tutta opera di Kaikeyi."
Bharata trovò la capanna dove viveva il fratello. Lo vide seduto con l'arco tra le mani, vestito di semplici stoffe da eremita, emanante una lu­ce di gloria. La sua gioia nel rivederlo non aveva limiti: coloro che assi­stettero a quella scena patetica versarono calde lacrime.
I fratelli si sedettero.
"Cosa succede ad Ayodhya?" chiese Rama. "Spero che tutti godano di buona salute e che siano felici sotto il governo di un re così giusto come mio padre."
A quelle parole Bharata si senti sopraffatto dal dolore e non poté re­plicare subito. Rama lo guardò ansiosamente. L'espressione disperata del fratello parlava da sé.

"Nostro padre, il virtuoso re Dasaratha," rispose poi; "è asceso ai pia­neti superiori, incapace di sopportare il dolore di essere separato da te." Rama fu folgorato da quella notizia. Nascose il viso fra le mani e pianse amaramente. Per lunghi istanti nessuno parlò.
"Ora il regno di Ayodhya è senza un re," continuò Bharata, "e tu sei l'erede di diritto. Il popolo ha bisogno di te e non aspetta altro che il tuo ritorno. So che hai promesso a nostro padre di restare per quattordici an­ni nella foresta, ma ora lui è morto. Torna ad Ayodhya e io prenderò il tuo posto qui, cosicché nostro padre non dovrà soffrire per non aver po­tuto mantenere l'impegno."
Negli occhi di Rama un lampo di decisione.         
"No," rispose. "Io ho promesso a nostro padre di restare nella foresta per quattordici anni e così farò. Torna tu ad Ayodhya e governa al mio posto. Quando il periodo sarà trascorso io tornerò a riprendere il trono."
A nulla valsero le insistenze: Rama non voleva tornare.
"Sapevo che avresti voluto mantenere il voto," disse Bharata alla fine. "Allora se proprio non vuoi tornare, almeno calza questi sandali che ho portato. Saranno posti sul trono e io governerò in tuo nome, abitando in una capanna alla periferia della città."
Rama acconsentì e poco dopo Bharata prese il cammino del ritorno. Ma il suo cuore era gonfio di tristezza.

Gli asceti della collina, allarmati dall'arrivo di numerosi Rakshasa, partirono tutti, lasciando Citrakuta desolata. Senza quei saggi il posto non era più attraente come prima e anche per questo Rama decise di spo­starsi.
Prima di partire andarono a trovare il saggio Kanva, che abitava nelle vicinanze. Poi chiesero le benedizioni al santo Atri che era fra i pochi rimasti a Citrakuta con la moglie Anasuya. Sita si appartò con la santa donna e le raccontò la storia della sua vita e del suo incontro con Rama. Poi il virtuoso principe decise di entrare in quella parte della foresta do­ve, a detta degli eremiti, vivevano numerosi e crudeli Rakshasa. Incuran­ti del pericolo Rama, Lakshmana e Sita entrarono nella foresta.
Aranya Kanda



Quella foresta infestata da terribili Rakshasa si chiamava Dan­daka.
Durante il cammino incontrarono le capanne di tran­quilli asceti sempre sereni, sorridenti, in possesso di una pro­fonda conoscenza delle cose spirituali. Erano sempre dispo nibili al dialogo e rispondevano a ogni domanda. Le loro glorie erano le austerità e lo studio dei sacri Veda, ed era grazie alla loro vita santa che esisteva pace sul pianeta. A quei tempi godevano di un grande rispetto da parte dei monarchi. Rama offrì ad ognuno di loro rispettosi omaggi e si informò sul loro benessere. Trovò che le risposte erano abbastanza simili tra di loro.

"Tutto procede bene nella pratica delle nostre austerità, ma purtroppo siamo sempre disturbati dai Rakshasa che infestano questa foresta. Per favore, proteggici da questi esseri malvagi. Eliminandoli faciliterai le no­stre discipline."
Rama promise a tutti la protezione. lI principe e i suoi cari si addentra­rono ancora di più nella terribile foresta alla ricerca dei Rakshasa.
Un giorno ne incontrarono uno. Era un mostro orribile, grande come una montagna e con una voce paurosa. Aveva delle braccia lunghissime ed era coperto di peli rossastri Appena li vide attaccò immediatamente, allungando a dismisura le braccia. Rapido come la folgore, afferrò Sita e la rapì. Ma Rama lo seguì e dopo un breve combattimento lo colpì a morte. Mentre stava per esalare l'ultimo respiro, tra lo stupore dei princi­pi il Rakshasa parlò.
"Io sono chiamato Viradha. Ora mi vedete come un mostro spavento­so, ma nella mia vita precedente ero un Gandharva di nome Tumvuru. Sono stato condannato a stare in questa forma disgraziata per una male­dizione. Un giorno dovevo compiere un importante servizio per Kuvera, quando vidi l'Apsara Rambha. Attratto dalla sua bellezza la seguii, tra­scurando il mio dovere. Fu per quella ragione che Kuvera mi maledisse, c diventai così un terribile Rakshasa. Ma prima mi disse che avrei riguadagnato il mio stato originale quando sarei stato ucciso dal figlio di Da­saratha di nome Rama. Grazie a te ora ritornerà a Svarga-loka."
Così Viradha abbandonò il suo corpo.


Dopo aver ucciso Viradha, Rama volle andare a visitare l'eremo del saggio Sarabhanga. Quando arrivò nelle vicinanze vide Indra che parlava con il saggio.
Indra lo vide arrivare e si nascose, pensando di non essere stato visto. Rama e i suoi compagni offrirono umili rispetti a Sarabhanga e parlarono a lungo; poi Rama, curioso di sapere cosa facesse lì il re degli esseri ce­lesti e fingendo di non averlo riconosciuto, chiese:
"Grande saggio, chi era quel nobile personaggio che ho visto mentre arrivavo?"
"Era Indra, il re dei pianeti celesti," rispose, "venuto per convincermi a lasciare questo mondo e andare a Brahma-loka. Da molto tempo, grazie alle mie austerità, ho guadagnato l'accesso a quei pianeti celestiali, però sapevo che tu saresti arrivato qua e ho sempre rifiutato di lasciare questo mondo senza averti visto. Volevo prima parlare con te. Ora il mio desi­derio è soddisfatto. Posso andare tranquillamente sul pianeta di Brahma."
Così detto il saggio preparò una catasta di legna e vi appiccò fuoco. Dopodiché entrò nelle fiamme. La scintilla spirituale che abbandonò il corpo fu visibile ad occhio nudo e Rama gli offrì rispettosi omaggi. Sa­rabhanga aveva raggiunto la perfezione delle sue austerità.
Durante il loro peregrinare Rama, sempre accompagnato da Sita e Lakshmana, incontrò altri eremiti. Anche loro gli chiesero protezione contro i Rakshasa che infestavano Dandaka. A tutti Rama diede la stessa risposta:
"Non preoccupatevi più. Io distruggerò quegli esseri malefici. Il mondo deve essere liberato da tutti coloro che commettono atti empi."
I tre decisero di andare a trovare Agastya, uno dei saggi più potenti che la storia ricordi. Quando lo videro capirono come aveva potuto com­piere tante imprese prodigiose. Lo ammirarono seduto nella posizione yoga detta del loto, ricoperto di cenere, che brillava di un'intensa energia spirituale. Dopo avergli offerto gli omaggi di dovere, Rama volle intrat­tenersi a parlare con lui, godere della sua compagnia e assimilare la sua profonda coscienza spirituale, Alla fine del colloquio, Agastya gli donò varie armi celestiali e lo iniziò al loro uso.
Stavano viaggiando da troppo tempo. Rama pensò che fosse meglio fermarsi in qualche luogo bello come lo era stato Citrakuta. Sita, poi, era stanca e aveva bisogno di un periodo di riposo. Pensò di chiedere ad A­gastya qualche consiglio.
"Sto pensando," disse il principe, "di fermarmi da qualche parte. Mia moglie è stanca e una donna non è adatta a un continuo peregrinare. Do­ve potremmo trovare un luogo bello e pacifico per passare felicemente un periodo del nostro esilio?"
"Non lontano da qui," rispose il saggio, 'c'è un luogo chiamato Pan­chavati. E' un luogo stupendo. La natura è generosa lì, e sarete al sicuro da qualsiasi pericolo. Sì, andate a Panchavati e sono sicuro che vi trove­rete bene. Vi piacerà."
Seguendo il consiglio di Agastya, Rama, Lakshmana e Sita andarono a Panchavati. Mentre si dirigevano verso la loro meta, incontrarono un gigantesco avvoltoio che li guardava minacciosamente. Era così grosso che Sita si mise a tremare dalla paura. Ma Rama fermò il fratello che stava per afferrare la spada e si rivolse all'enorme animale.
"Chi sei tu? Sei forse un Rakshasa? Io sono il principe Rama e sono nato per la distruzione di tutti i demoni. Se sei dunque uno di quegli es­seri malvagi, preparati a morire."
L'animale, sentendo il nome di Rama, sembrò cambiare espressione e riempirsi di felicità.
"Rama! Tu sei Rama? Oh, il figlio di Dasaratha. Il mio nome è Jatayu e vostro padre era un mio vecchio amico."
Lakshmana si tranquillizzò e staccò la mano nervosa dall'impugnatura della spada.
"Mio padre è Aruna," proseguì Jatayu, "il fratello di Garuda, e mia madre è Syeni. Ho anche un fratello, Sampati. Sto vagando in questa foresta alla ricerca di un luogo tranquillo dove vivere e non l'ho ancora tro­vato. Se voi siete i figli di Dasaratha, vorrei costruire la mia casa vicino alla vostra capanna. Vi sarò utile. Quando voi sarete lontani io proteggerò la vostra donna da ogni pericolo."
Rama sorrise e accettò. Così Jatayu andò a Panchavati insieme a loro. Panchavati era veramente bella come Agastya l'aveva descritta e Ra­ma visse lì felicemente per lungo tempo, godendo della compagnia di Si­ta e di Lakshmana, in una capanna abilmente costruita dal fratello.

Un giorno, lungo il sentiero che costeggiava la capanna di Rama, pas­sò per caso Surpanakha, la sorella di Ravana, il re dei Rakshasa. Surpa­nakha era un essere mostruoso e malvagio, degna sorella di Ravana. Le sue sembianze erano orrende ed era fisicamente gigantesca. Le accadde di vedere Rama seduto in meditazione. Più bello di un Deva, il suo corpo radiava luce come un secondo sole. La Rakshasi si fermò a guardarlo, rapita, quasi stupita che potesse esistere un uomo così bello, e provò una forte attrazione per lui. Il suo cuore si riempì di lussuria. Pensando di po­terlo avere come marito si presentò di fronte a Rama e gli rivolse la parola.
"Meraviglioso giovane, io sono Surpanakha, la sorella dei potenti Ra­kshasa Ravana e Kumbhakarna. Anche Khara e Dussana, famosi in tutto il mondo, sono miei fratelli. Chi sei tu? Come ti chiami? E da dove vieni? Tu sei l'uomo più attraente che io abbia mai conosciuto, e sono curio­sa di sapere il tuo nome e la tua provenienza."
Rama guardò la mostruosa donna e intuì subito le sue intenzioni. In un certo senso era abbastanza divertito dalla situazione.
"Il mio nome è Rama," rispose con tono scherzoso, "e questo giovane è mio fratello Lakshmana. Questa donna è mia moglie Sita. Ci troviamo fuori dal nostro regno perché siamo stati esiliati a causa di un complotto.
Il nostro regno è Koshala, che un tempo fu protetto dal celebre re Dasa­ratha, nostro padre. Ma dimmi, in cosa posso esserti utile?"
La gigantesca Surpanakha aveva il corpo orrendamente deforme, ma era così colpita dalla bellezza di Rama che non se ne rendeva più conto. "Io desidero solo averti come marito. Da quando ti ho visto ho sentito subito una forte attrazione per te. Ti prego, non rifiutarmi, accetta la mia proposta."
La situazione era alquanto buffa e imbarazzante. Rama la prese sullo scherzo.
"La tua bellezza è tale che mi riesce difficile rifiutarti," rispose. "Ma io sono già sposato e ho fatto voto di avere una sola donna in tutta la vi­ta. Però qui c'è mio fratello Lakshmana, che è bello come me, è altrettan­to valoroso e saggio. Inoltre non ha fatto voto di castità come me. Rivol­giti a lui, e vedrai che ti accetterà di sicuro."
Surpanakha prese quelle parole sul serio e non si accorse che Rama si stava prendendo gioco di lei. Così si rivolse a Lakshmana, guardandolo con tenerezza e desiderio.
"Lakshmana, mio bellissimo eroe. Rama non può sposarmi per un vo­to fatto a sua moglie, ma tu non hai pronunciato alcun voto e sei libero di sposarmi e di godere della vita insieme a me."
Lakshmana continuò lo scherzo cominciato dal fratello.
"E' vero che tu sei una ragazza così bella che è difficile resistenti," ribatté, "e vorrei accettarti come moglie, ma sappi che io sono solo lo schiavo di Rama. E non vorrai metterti con uno schiavo! Insisti con lui e vedrai che abbandonerà la sua brutta moglie per fuggire con te."
Ma il gioco era andato troppo oltre. Quanto Rama in seguito si sareb­be pentito di aver scherzato troppo con Surpanakha! E la natura irascibile e aggressiva della Rakshasi divampò all'improvviso, violenta, incontrol­labile. Pensando che fosse veramente Sita l'ostacolo che si frapponeva fra lei e la soddisfazione dei suoi desideri, decise di ucciderla e divorarla. Con un grido spaventoso Surpanakha si gettò contro Sita, che urlò di ter­rore. Lakshmana, velocissimo, si rese conto immediatamente del grave pericolo e fece appena in tempo a sfoderare la spada e a porsi fra il mo­stro e Sita. Con tre precisi colpi di spada le tagliò il naso e le orecchie. Gravemente ferita, Surpanakha corse via, urlando di dolore e di rabbia.
Sanguinando e urlando come un'ossessa, Surpanakha corse nella fore­sta di Janasthana, non lontana da Panchavati, e lì trovò il fratello Khara. Appena la vide arrivare in quello stato, Khara spalancò gli occhi in preda a una violenta ira.
"Che ti è successo? Chi ti ha ridotta così?" gridò.
Con voce affannosa e rotta dai singhiozzi, Surpanakha raccontò ciò che era accaduto. Khara cacciò un urlo simile a un ruggito e imme­diatamente chiamò quattordici valorosi Rakshasa, ordinando loro di uc­cidere quegli uomini. Surpanakha condusse i quattordici demoni a Pan­chavati e mostrò loro la capanna dove vivevano i due fratelli. Troppo fiduciosi della loro forza, i guerrieri affrontarono apertamente Rama e La­kshmana. Ma dopo un breve combattimento Rama li uccise tutti. Surpanakha, che stava osservando di nascosto, tornò da Khara e gli narrò l'incredibile fatto accaduto. Il potente Rakshasa non riusciva a cre­dere che quattordici dei suoi migliori combattenti fossero caduti per ma­no di un uomo e decise di scendere personalmente in campo con tutto l'e­sercito per vendicare l'onore della famiglia. Khara aveva un esercito po­deroso, composto di ben quattordicimila possenti Rakshasa. Anche il fra­tello Dussana volle partecipare al combattimento. Il rumore degli zoccoli dei cavalli assordò tutti coloro che vivevano nelle foreste circostanti. Rama e Lakshmana sentirono il sordo boato e capirono che un serio pericolo si stava avvicinando. Rama ordinò a Lakshmana di portare Sita in un posto sicuro e si preparò al confronto. Presto le frecce, le lance, le asce, e tanti altri tipi di armi volarono pericolosamente verso Rama, ma dall'arco del principe scaturirono migliaia di potenti frecce che spezzaro­no tutte quelle armi. E ben presto i Rakshasa cominciarono a cadere, a decine e a centinaia. In poco tempo tutti, compreso Khara e Dussana, giacquero inerti sul terreno. A Panchavati tornò il silenzio. La battaglia era vinta.
Un solo Rakshasa riuscì a fuggire. Il suo nome era Akampana e pos­sedeva poteri mistici grazie ai quali poteva viaggiare nell'aria a grande velocità. Fuggì a Lanka, la città di Ravana.
Akampana narrò al re tutto l'accaduto e gli descrisse la sorprendente potenza di Rama e la divina bellezza di Sita.
"Quell'uomo combatte in modo inconcepibile," disse affannato. "Da solo ha saputo sterminare quattordicimila di noi dalla forza e capacità che tu ben conosci. Era così veloce nel combattimento che si vedevano solo le frecce nell'aria e i corpi dei nostri guerrieri mutilati in più parti. Siamo stati colti di sorpresa, non ci aspettavamo un simile guerriero, né pensavamo che esistesse fra i mortali."
Akampana si fermò un attimo per riprendere fiato.
"Mentre combattevo," riprese poi, "vidi nascosta nelle pendici della collina lì vicina una donna dalla bellezza indescrivibile. Capii che era sua moglie: Surpanakha ce l'aveva descritta. Francamente ti dico che in tutto il creato non esiste una donna tanto bella. Mentre fuggivo non potevo smettere di pensare a quella bellezza paradisiaca. E pensavo che sarebbe la compagna degna di te e della tua grandezza! Quando la vedrai com­prenderai il significato della bellezza. E quando Rama si vedrà privato della sua amata moglie, noi potremo facilmente ucciderlo e vendicare l'affronto che ci ha fatto. Grande re Ravana, rapisci Sita e distruggi Ra­ma."
Ravana rifletté a lungo su quanto era accaduto, e decise di recarsi da Maricha per chiedere consiglio. Si fidava molto di Maricha e quando c'e­rano situazioni di emergenza si recava sempre da lui. Maricha era il fi­glio di Tadaka, quello stesso che aveva disturbato i sacrifici di Visvami­tra, e si ricorderà che nel corso del combattimento era stato scaraventato a molte miglia di distanza da un'arma di Rama. Da quel giorno il Ra­kshasa si era convertito a una vita più virtuosa ed era diventato un asceta nella foresta.
Ravana gli raccontò tutta la storia e poi gli chiese cosa ne pensasse dell'idea di rapire Sita. Maricha non sembrò per niente entusiasta del pro­getto.
"Io ho già avuto l'occasione di incontrare Rama in combattimento," disse Maricha, "e il consiglio che ti posso dare è questo: non importunar­lo per nessuna ragione, perché quando è adirato può distruggere il mon do intero con tutte le creature che vi abitano. Lascialo tranquillo, e anche la moglie e il fratello. Tu hai tutto ciò che si possa desiderare dalla vita. Non rovinare tutto per orgoglio. Torna pacificamente a Lanka e goditi la vita in compagnia delle tue regine e dei tuoi fedeli amici. Te lo ripeto: non importunare Rama."
Maricha aveva un forte ascendente su Ravana, che si convinse che quella era la cosa migliore da farsi, e tornò a Lanka.
Tornato a palazzo, Ravana trovò Surpanakha che lo aspettava. Quan­do la vide ferita e piangente sentì il petto gonfiarsi di rabbia e di odio verso colui che aveva ferito la sorella. Surpanakha, che non desiderava altro che la vendetta, piangeva e gridava tra i singhiozzi.

"Tutti sanno che non esiste nessuno più valoroso di te in tutti i mondi, ma sembra che tu non voglia aiutare tua sorella, che è stata umiliata e fe­rita da due insignificanti esseri umani. Come puoi sperare che la gente continui a rispettarti se non vendichi la morte dei tuoi fratelli Khara e Dussana? Tutti penseranno che hai avuto paura di Rama e nessuno terrà più conto dei tuoi ordini. Se farai così in breve tempo perderai la posi­zione che hai guadagnato con tanta fatica."
Vedendo l'indecisione del fratello, Surpanakha pensò di far leva su al­tri sentimenti.
"E poi ti assicuro che dopo aver visto Sita," continuò, "capirai che cosa sia veramente la bellezza. Credimi. Rapiscila, falla tua, e vendica l'onore ferito della tua razza."
Il carattere violento e vendicativo prevalse sulla ragione e Ravana gridò ai suoi assistenti di preparare il carro di battaglia. Con quello tornò da Maricha. Vedendolo arrivare, Maricha capì che un fosco avvenire di tragedie si apriva per la razza nella quale era nato. Stavolta Ravana non era venuto per un consiglio.
"Ho preso la mia decisione," disse con voce imperiosa. "Io rapirò Sita e distruggerò Rama. Non sono un vigliacco: io sono il monarca della razza più potente del mondo. Niente mi spaventa. Perché dovrei temere un uomo qualsiasi, per quanto valoroso, come è questo Rama?"
Maricha fece l'ultimo tentativo per salvare la situazione. Grazie ai po­teri che con le sue austerità aveva ottenuto, poteva vedere la morte e la distruzione che sarebbero state causate dalla stupidità e dalla vanità di Ravana.
"Chi ti ha dato consigli così poco saggi? Un re con cattivi consiglieri, per quanto potente, è destinato alla rovina. Credimi. Toccare Rama è come toccare inavvertitamente un serpente velenoso: la conseguenza di un simile errore è la morte. Non cedere all'orgoglio. Torna alla tua città e goditi la vita."
Ma Ravana era deciso.
"Maricha, questa volta non sono venuto a chiederti un consiglio, ma per darti un ordine. Tu devi aiutarmi. E sappi che se non lo farai ti ucci­derò io stesso. Pensaci bene, quindi, prima di rifiutare."
Maricha capì che tutto era inutile e che Ravana non poteva essere sal­vato. Ma ora vedeva che la sua vita era in pericolo comunque, e non ave­va scampo. Pensò che era meglio essere uccisi da Rama piuttosto che da Ravana.
"Sono convinto che tu stia commettendo un grave errore, e presto te ne pentirai amaramente. Ma ti aiuterò. Dimmi cosa devo fare."
Ravana era molto affezionato a Maricha e non gli sarebbe piaciuta l'idea di ucciderlo. Così, soddisfatto della decisione presa dall'amico, sorri­se crudelmente.
"Noi andremo da questa gente oggi stesso. Devi trasformanti in un meraviglioso cervo dorato, bello come mai se ne sono visti in questo mondo, e sotto queste sembianze devi farti vedere da Sita, che chiederà a Rama di inseguirti e catturarti. Tu fuggirai facendoti rincorrere per molto tempo. Quando sarai abbastanza lontano devi gridare aiuto, imitando la voce di Rama. Sicuramente Sita si spaventerà e manderà Lakshmana in suo aiuto. Quando sarà rimasta sola io la rapirò e la porterò a Lanka. Ma­richa, fa questo per me. Non desidero altro, ora, che vedere Sita in mio potere e vendicarmi dell'affronto fatto a mia sorella e ai miei parenti e amici di Janasthana."
A malincuore Maricha accettò, ma si sentiva come un agnello che en­trava nella tana di un lupo.
Presto arrivarono nei pressi della capanna dove vivevano coloro che Ravana considerava le sue ignare e indifese vittime. Era una bella gior­nata: il sole era alto in cielo e la foresta era piena di fiori e di profumi de­liziosi. Questo scenario di bellezza naturale vide Ravana, l'essere che con la sua perfidia terrorizzava il mondo, mettere in atto il suo vile piano. Grazie ai poteri mistici di cui disponeva, Maricha prese le sembianze di un fiabesco cervo dorato, dalla bellezza così incantevole che avrebbe po­tuto attrarre la fantasia di chiunque lo guardasse. Con lo scopo di farsi notare da Sita, cominciò a correre qua e là nei dintorni della capanna e poi a fermarsi, e poi ancora a correre, mettendo bene in vista le sue for­me perfette. Sita lo vide, e non credeva ai propri occhi. Come poteva esi­stere un animale tanto bello? Chiamò il marito.
"Rama, corri, guarda là quel cervo, che bellezza. Non è meraviglio­so?"
Rama e Lakshmana accorsero e ammirarono lo stupendo animale, ma erano visibilmente diffidenti. Sita non aveva nessun sospetto.
"Rama, ti prego, catturalo per me. Lo terremo qui con noi, per farci compagnia."
Lakshmana era il più diffidente.
"Rama, non andare. Quel cervo ha una bellezza irreale, è troppo bello per essere vero. Sono sicuro che è un trucco dei Rakshasa per dividerci e tentare di colpirci."
Rama non sembrava eccessivamente preoccupato, anzi abbozzò un sorriso.
"Voglio scoprire se quella creatura è veramente un trucco dei Ra­kshasa. Se lo è lo ucciderò, chiunque sia, ma se è un vero cervo devo cat­turarlo per Sita. Io vado, ma tu promettimi di non lasciare Sita da sola neanche per un momento e per nessun motivo. Finché tu sei qui lei non corre pericoli, ma se tu la lasciassi sola potrebbe accadere un disastro."
Rassicurato da Lakshmana, Rama corse verso la preda. Vedendolo ar­rivare, Maricha fuggì: aveva raggiunto il suo scopo. Corse via con gran­de agilità tra la fitta boscaglia. Maricha correva con una velocità straor­dinaria e, cercando di sfuggire a Rama per salvarsi la vita, usò i suoi po­teri sovrannaturali. Talvolta si rese invisibile, altre volte ricompariva, tutto con una rapidità sorprendente, troppa per non destare sospetti. Ra­ma pensò che il cervo si comportava in maniera troppo strana per essere ciò che sembrava, ma voleva essere sicuro, e gli corse dietro per molto tempo. Quando fu certo che si trattava di un trucco, decise di ucciderlo. Una freccia dura come la pietra partì dal suo arco e colpì il bersaglio. Colpito a morte, Maricha non poté mantenere la sua forma illusoria e ri­prese la forma originale, possente, gigantesca, che incuteva timore a chiunque la guardasse. Con le ultime energie rimaste, gridò, imitando la voce di Rama:
"Aiuto! Sita, Lakshmana! Aiuto! Aiuto!"
Quelle grida erano così alte che arrivarono fino alle orecchie di Sita. Sentendo la voce disperata del marito, non poté controllare le sue emo­zioni e divenne terribilmente ansiosa.
"Lakshmana, ascolta, questa è la voce di Rama. Chiede aiuto! È in pericolo. Corri immediatamente da lui."
Ma Lakshmana non cadde nella trappola neanche quella volta. Così come per il cervo, sospettò di una manovra dei Rakshasa.
"Sita, non devi preoccupanti," le disse con voce rassicurante. "In que­sto mondo nessuno può sopraffare Rama in combattimento. Rama è in­vincibile. Non esiste essere che possa anche solo dargli preoccupazione. Queste grida, così come l'apparizione del cervo, sono un trucco dei Ra­kshasa che vogliono separarci. Stai tranquilla. Rama tornerà presto."
Ma Sita era terrorizzata che potesse accadere qualcosa al suo amato, e sentendo altre grida disperate insistette:
"Ma questa è la voce di Rama. E' in pericolo. Cosa aspetti a correre in suo aiuto? Come fai a non precipitarti per salvargli la vita?"
"Non posso lasciarti sola in questa foresta piena di pericoli," ribatté Lakshmana tranquillamente, sicuro dell'invincibilità del fratello. "Non agitarti. Tranquillizzati. Rama mi ha ordinato di non lasciarti sola per nessun motivo. Sii serena. Presto lo vedremo tornare sano e salvo."
Ma la tensione era già andata oltre la sua possibilità di sopportazione, e lei non riuscì più a tollerarla. Ripetutamente chiese, ordinò, supplicò Lakshmana di correre in aiuto di Rama, ma lui aveva capito il trucco e rifiutò decisamente. Una sorda rabbia invase il cuore spaventato di Sita.
"E così speri che Rama muoia, vero? Per questo sei venuto nella fore­sta con noi. Ora ho capito il tuo piano. Aspettavi un momento come que­sto. Tu non vuoi altro che Rama muoia per prendermi come moglie. Ma sappi che se dovesse accadergli qualcosa io mi ucciderò e tu sarai re­sponsabile delle nostre morti."
Sita non pensava davvero quello che stava dicendo. Disse quelle in­giuste e crudeli parole solo per spingere Lakshmana a correre in aiuto di Rama. Ed ebbero l'effetto desiderato. Profondamente colpito in ciò che era il più alto valore della sua vita, l'amore e la lealtà nei confronti del fratello, Lakshmana si sentì ferito.
"Io non so come tu abbia potuto dire parole così crudeli e false," disse rabbiosamente. "Non sai quanto tu mi abbia ferito. Ma non ti rendi conto del pericolo che corri se ti lasciassi sola qui?"
Ma Sita incalzò e lo accusò ancora con durezza. Pieno di dolore e di rabbia, Lakshmana decise che doveva andare.
"E sia. Io andrò a cercare mio fratello nella foresta. Disobbedirò ai suoi ordini, e sappi che stai correndo un grave pericolo. Ma ascoltami. Io creerò tutt'intorno a te un cerchio magico, attraverso il quale nessuno potrà passare. Questo ti proteggerà. Promettimi che non lascerai passare nessuno né oltrepasserai questo cerchio per nessun motivo."
Sita, in preda all'ansietà, gli dette tutte le assicurazioni che chiedeva. Dopo aver tracciato il cerchio magico, Lakshmana partì alla ricerca di Rama. Era il momento che Ravana stava aspettando.
Senza perdere tempo, prese le sembianze di un asceta e cantando mantra in lode a Shiva si diresse verso la capanna dove era Sita. Sita lo vide arrivare, ma non si insospettì. Un vecchio asceta che cantava preghiere a Shiva era un incontro comune nella foresta. Mentre si avvicina­va, Ravana rimase folgorato dalla bellezza di Sita e la sua lussuria si ac­cese. Ma ad un certo punto, inspiegabilmente, vide che non riusciva ad andare avanti. Il cerchio magico creato da Lakshmana gli impediva di fare altri passi. Per quanto spingesse con tutte le sue forze non riuscì ad avanzare. Una violenta rabbia si accese nel suo cuore, ma la controllò. Sita vide il vecchio asceta visibilmente stanco ed affamato: non poteva sospettare chi fosse veramente. Mossa dalla pietà decise di portargli cibo e acqua. E oltrepassò il cerchio magico. Ravana ammirò più da vicino la sua bellezza senza difetti, e mentre aspettava il cibo e l'acqua che gli porgeva le rivolse la parola.
"Chi sei tu? E cosa fai qui da sola in questa foresta infestata da de­moni cannibali? Non sai quale pericolo corri."
"Sant'uomo," rispose Sita con dolcezza. "Io non sono nata nella fore­sta, né sono figlia di qualche asceta. E non sono sola. Mio marito è anda­to a caccia di un meraviglioso cervo e presto sarà di ritorno con suo fratello. Io sono la figlia di un re, così come lo è il mio sposo. Siamo stati esiliati nella foresta per quattordici anni. Per questo sono qui ora sola in questa foresta pericolosa."
"La tua bellezza è senza paragoni," riprese Ravana, "e nemmeno i migliori poeti potrebbero descriverla. Una donna come te non dovrebbe vivere neanche un istante in un luogo così miserevole."
Sita pensò che parole del genere erano alquanto strane nella bocca di un asceta e cominciò a sentirsi a disagio. Quel vecchio emanava un'at­mosfera di estrema asprezza e negatività. Rispose che era il dovere di ogni moglie casta di seguire il marito qualunque sia il suo destino. Ora l'asceta quasi sghignazzava.
"Quando il marito cade in disgrazia, come il tuo Rama, bisogna ab­bandonarlo. La vita è fatta per provare le sue delizie. Che felicità può of­frirti ora quel povero principe? Tu meriti molto di più: meriti di essere la regina del più grande re della terra."
"Cosa dici?" replicò Sita sdegnata. "La più alta perfezione per una donna casta e onesta è quella di rimanere fedele al proprio marito in ogni circostanza: quando tutto va bene ma anche e forse soprattutto quando le cose vanno male. Io non tradirei mai Rama per niente e per nessuno al mondo."
Ma ormai aveva capito di essere caduta in una trappola. Mentalmente chiese perdono a Lakshmana e aiuto a Rama. Ravana guardava Sita con severità.
"Io non sono un povero vecchio asceta: io sono Ravana, il re della razza più potente dell'universo. Io voglio che tu diventi la mia regina, e che tu voglia o no lo diventerai."
Così dicendo il Rakshasa riprese le sue vere sembianze. Sita, vedendolo così maestoso e possente, rabbrividì. Oramai aveva capito tutto l'inganno. Prese a gridare e a correre, ma Ravana la afferrò e la gettò sul suo carro, nascosto nelle vicinanze. Sita gridava, piangeva, cercava di convincere il malvagio re a lasciarla, a non portarla via: ma inutilmente. Nessuno poteva più aiutarla. Il carro si alzò in cielo e partì con grande velocità. La povera Sita era affranta e terrorizzata. Cosa le sarebbe suc­cesso?
II vecchio avvoltoio Jatayu, il loro caro amico, vide tutta la scena e, appena il carro fu in cielo, attaccò. Ma sapeva che stava tentando un'im­presa disperata. In un generoso quanto inutile tentativo di liberare Sita, Jatayu attaccò l'invincibile Rakshasa. E combatté con grande valore, uc­cidendo l'auriga e i muli magici che trainavano il carro, e distruggendo il carro stesso. Riuscì persino a ferire Ravana. Ma la furia di Ravana di­vampò come il fuoco della dissoluzione universale. Afferrò con furore la sua spada e con colpi vigorosi tagliò le zampe e le ali al povero Jatayu il quale, mortalmente ferito, precipitò al suolo. Oramai nessuno poteva più contrastarlo. Il carro distrutto, Ravana portò via Sita in volo. Disperata, Sita piangeva e si lamentava per la morte di Jatayu e per il suo crudele destino.
Poco dopo, mentre viaggiava in cielo, Sita vide alcune figure che da terra guardavano la curiosa scena del gigantesco Rakshasa che portava via una giovane donna piangente. Pensando di lasciare qualche traccia, lasciò cadere delle stoffe e dei bracciali. Potevano essere un segnale per Rama quando l'avrebbe cercata.
Cosa faceva Rama? Oramai aveva ben compreso il vile inganno e si preoccupò che il fratello potesse farsi ingannare dalle false grida di Ma­richa, lasciando imprudentemente Sita da sola. Mentre tornava rapida­mente sui suoi passi, scorse tutt'intorno dei cattivi segni che lasciavano presagire una tragedia. E quando sulla strada incontrò il fratello che cor­reva altrettanto affannosamente, le paure divennero angosciose realtà. "Lakshmana, che fai qui!" gli gridò. "Ti avevo detto di non lasciare Sita da sola!"
Lakshmana riprese fiato e gli raccontò cosa era successo quando Sita aveva sentito le urla, e lo tranquillizzò che l'aveva lasciata protetta dentro un cerchio magico. Ma voleva solo rassicurarlo per un po': anche lui sapeva cosa sarebbe accaduto se Sita fosse stata ingannata e indotta a usci­re dal cerchio. Ambedue disperati, corsero con quanta forza avevano nel­le gambe. Arrivati alla capanna la trovarono desolatamente vuota: tutt'in­torno chiari segni di lotta. Oramai le loro più nere paure si erano tramu­tate in disperata realtà: Sita era stata rapita, o forse anche uccisa.
I due fratelli cercarono affannosamente ovunque: al ruscello, nel bo­sco, nelle radure, nei luoghi preferiti dove Sita andava spesso. Ma molto presto le ultime illusioni caddero: Sita era stata rapita dai Rakshasa. Ra­ma era sconvolto, non riusciva a tenere più la mente sotto controllo, i suoi occhi vagavano fulmineamente ovunque, nella speranza vana di scorgere l'amata.
"La mia cara Sita," gemette. "Dove sarà ora? Chissà quale essere malvagio l'avrà rapita. E chissà se sarà ancora viva."
Tutti i sentimenti di sofferenza per la separazione dalla compagna si scatenarono nel suo cuore.
"Come farò ora senza il suo sorriso che, come la luce, rischiara anche le più terribili tenebre di un destino avverso? E chi mi parlerà con la stessa voce limpida, dicendomi parole affettuose, piene di profondo amo re? Io sono il colpevole di tutto ciò: non dovevo permetterle di seguirmi, qui, in questa dura foresta priva di ogni comodità e piena solo di Raksha­sa e animali feroci. Solo per un mio egoismo le ho permesso di seguir­mi."
Anche Lakshmana era affranto, e più vedeva il fratello che piangeva e si lamentava e più si sentiva colpevole. Tentò di consolarlo.
"La troveremo. Vedrai che la troveremo. Continuiamo a cercare. Non scoraggiarti. Vedrai che la troveremo."
Nella loro disperata ricerca arrivarono nel luogo del combattimento fra Jatayu e Ravana. Lì videro i resti del carro e i corpi dei muli e dell'au­riga, mutilati in molte parti. Più in là il morente Jatayu. Avendo intuito che aveva tentato inutilmente di difendere Sita, Rama e Lakshmana si chinarono tristemente sul loro caro amico. Rama lo chiamò con voce amorevole.
"Jatayu, amico mio, chi ti ha fatto questo? E' lo stesso che ha rapito la mia Sita, vero? Dimmi, è ancora viva?"
Jatayu era moribondo. Parlava con un filo di voce.
"E' stato Ravana..." disse con le ultime forze che gli rimanevano, "il re dei Rakshasa... in persona. Voi vi eravate allontanati.., e ha rapito Si­ta... Ho cercato di difenderla, ma sono troppo vecchio."
Rama gli sorrise teneramente e lo accarezzò.
"Amico mio, non potrò mai ripagare il servizio che mi hai reso. Hai visto dove si dirigeva e se è ancora viva?"
"Sita è viva..." disse Jatayu, "non preoccuparti... non l'ucciderà. So­no andati a sud... a sud..."
Si fermò un attimo per riprendere fiato.
"Sita piangeva... e ti chiamava... ma non disperarti... presto la ritro­verai... benedicimi... che in quest'ultimo istante della mia vita io possa ottenere lo scopo ultimo, la perfezione dell'esistenza... Rama."
Pronunciando il nome santo di Rama, Jatayu spirò. Addolorati per la morte del caro amico, i due fratelli celebrarono il funerale secondo le tradizioni vediche. Poi si incamminarono verso il sud, alla ricerca di Sita.
Entrarono nella foresta di Krauncha, piena di pericoli di ogni genere. Quel giorno stesso si imbatterono in Ayomukhi, una orribile Rakshasi la quale, vedendo Lakshmana così bello, se ne innamorò e tentò di costrin­gerlo a sposarla. Ma Lakshmana aveva perso la voglia di scherzare con le donne, afferrò la spada e le tagliò il naso, le orecchie e i seni. Ayomu­khi fuggì gridando furiosamente.
Camminando celermente nella tenebrosa foresta, Rama e il suo fratel­lo più giovane si imbatterono in un altro terribile Rakshasa. Costui era alto come una montagna e la sua voce sembrava provenire dalle profondità di una caverna. Era senza testa, e la grande bocca era nel mezzo del suo gigantesco petto, sopra del quale un unico grande occhio brillava come un tizzone ardente. Quando arrivarono, il mostro stava mangiando leoni, orsi e vari tipi di uccelli. Aveva le braccia lunghissime e incuteva terrore solo a guardarlo. Kabandha - così si chiamava il Rakshasa - vide i due fratelli e allungò fulmineamente le braccia per afferrarli. Colti di sorpresa i due non poterono difendersi e si videro trascinati fino quasi a finire nella bocca del mostro. Velocissimi, riuscirono a sfoderare le spa­de e con pochi poderosi fendenti gli tagliarono le braccia.
Ormai incapace di nuocere o di difendersi, Kabandha guardò i due fratelli e, con voce bassa e oramai rantolante, si rivolse a loro.
"Rama, ascolta. Voglio raccontarti del motivo per cui sono caduto in questa orrenda condizione di vita. Ascoltami con attenzione.
"Tempo fa, grazie a rigorose austerità, soddisfai Brahma, che mi be­nedisse con una lunga vita. Per questa benedizione che mi rendeva in­vincibile io sfidai Indra. Durante il combattimento egli distrusse la mia testa, le mie braccia e le mie gambe, ma non poté uccidermi. Così mi dette queste braccia che voi oggi mi avete tagliato, e mi pose quest'oc­chio e questa bocca nel petto. E mi disse:
"Quando Rama e Lakshmana taglieranno queste braccia e ti ucci­deranno, riprenderai il tuo aspetto originale."
"Così in questo corpo orribile io vagavo per le foreste e mi divertivo a spaventare i saggi. Ma un giorno il Rishi Sthulashira si arrabbiò e mi maledisse:
"Tu manterrai questa orribile forma per sempre."
"Io divenni terrorizzato e chiesi il suo perdono. Al ché disse: "Riprenderai la tua bella forma corporea quando Rama e Lakshmana bruceranno il tuo corpo."
"E ora sii misericordioso verso le mie sofferenze e dammi l'oppor­tunità di tornare gloriosamente nei pianeti celesti da dove provengo. Brucia questo corpo e io vi darò indicazioni per ritrovare la vostra Sita."
Sorpresi che il Rakshasa sapesse di Sita, Rama e Lakshmana fecero come aveva detto loro di fare. Appena il corpo fu incenerito, Kabandha apparve nella sua originale forma celeste. E, pieno di gratitudine per co­loro che gli avevano ridato la gioia di vivere, Kabandha parlò ancora.
"Io so quanto state soffrendo per il rapimento di Sita," disse. "Se vo­lete ritrovarla dovrete allearvi con il re degli uomini-scimmia, i Vanara, e sicuramente la ritroverete. Seguite le mie indicazioni e troverete la colli­na di Rishyamukha. Lì vive il loro capo, che si chiama Sugriva."
Dopo aver pronunciato quelle parole, Kabandha scomparve. I due fra­telli s'incamminarono verso la collina Rishyamukha.





Kiskindha Kanda
Era arrivata la primavera. C'era nell'aria un profumo leggiadro, un miscuglio di numerosi fiori che in quelle stagioni si face­vano sentire. Le cose sembravano riprendere vita e colore. E i corsi d'acqua - ce n'erano così tanti nella foresta! - scendevano gentilmente offrendosi a tutti. Tutto sembrava gaio, sereno, il disperato riacquistava la speranza, il sofferente la serenità. Durante la primavera la natura cresceva in bellezza e in fascino. Rama non era immune da quell'attrattiva. Il senso della mancanza di Sita era così intenso che alla sua sensibilità acuta tutto ricordava di lei. La regione del lago Pampa era stupenda durante la primavera. Ammirando le bellezze della natura, Ra­ma si aggirava nei dintorni, immerso in pensieri profondi. Era triste; quanto avrebbe voluto che Sita fosse lì con lui. Per qualche giorno vaga­rono nei pressi del lago. Poi si addentrarono nella foresta di Rishyamu­kha. Lì abitavano coloro che il fato insondabile aveva designato come loro futuri alleati, i Vanara, una potente razza di uomini-scimmia. Sape­vano che non avrebbero dovuto cercare troppo, che li avrebbero trovati loro. Così vagarono senza meta all'ombra di alberi secolari.
La loro ipotesi era esatta. I Vanara, sempre all'erta, li avevano già scorti. In quel momento Sugriva in persona li osservava di nascosto. Do­po averli esaminati sufficientemente si ritirò e convocò il consiglio dei ministri. Sugriva era visibilmente preoccupato.
"Avete visto quei due stranieri? Il loro portamento è quello degli kshatriya, e sono guerrieri fieri e nobili. Sicuramente saranno anche va­lorosi in combattimento. Che siano uomini di Vali venuti per ucci­dermi?"
Jambavan parlò per primo.
"Non siamo sicuri che siano nemici. Quindi non c'è bisogno di allar­marsi anzitempo. Io credo che dovremmo mandare qualcuno da loro per conoscerne le intenzioni."
Hanuman riprese la proposta di Jambavan.
"Ha ragione. Non c'è bisogno di avere paura. Io stesso posso andare da quei due giovani guerrieri per cercare di conoscere le loro vere inten­zioni."
Con l'approvazione di tutti gli altri, e dopo avere assunto le sem­bianze di un asceta, Hanuman si diresse verso il luogo dove erano Rama e Lakshmana. Li salutò.
"Come state?" disse. "Spero che tutto vada per il meglio nella vostra vita e che la fortuna vi sorrida sempre."
Rama offrì rispettosi omaggi a colui che credeva un asceta e gli ri­spose che la fortuna in quel periodo non era stata molto benevola con lo­ro.
"Chi siete?" riprese Hanuman. "Da quale famiglia provenite? E cosa fate su queste colline, dimora dei nobili Vanara, virtuosamente guidati dal valoroso Sugriva?'
Io mi chiamo Rama," rispose, "e questo è mio fratello Lakshmana. Siamo principi in esilio e nostro padre era il re di Ayodhya, Dasaratha. Siamo qui proprio per conoscere Sugriva e per fare amicizia con lui. Lo conosci? Sai dove si trova?"
Quando Hanuman sentì che quel nobile giovane che gli era di fronte era il famoso Rama di cui aveva sentito parlare così tante volte e che se­gretamente adorava come sua divinità, non riuscì più a contenere la gioia. Abbandonò le sembianze di asceta, riprese le sue fattezze naturali e si gettò ai piedi di Rama.
"Finalmente ho potuto conoscerti, guardarti, ascoltare le tue parole. Io sono Hanuman, uno degli assistenti di Sugriva. Egli è qui per paura di suo fratello, in questa foresta, ed è sempre diffidente con chi non cono­sce. Venite, vi porterò da lui."
Rama sorrise di cuore. Era felice di aver trovato Sugriva così presto. Tranquillizzò ancora Hanuman.
"Non dovete aver paura di noi. Non siamo i sicari di nessuno. Siamo venuti solo per fare amicizia con il vostro re."
Soddisfatto e già convinto, Hanuman condusse i due fratelli per un passaggio segreto fino al nascondiglio di Sugriva. Il principe e il Vanara strinsero un patto di alleanza, promettendosi reciproca assistenza. Rama, incuriosito dalla situazione di paura in cui vivevano Sugriva e i suoi pur potenti alleati, fu curioso di saperne la ragione.
"Perché sei fuggito dal tuo regno?" gli chiese Rama. "Perché ti na­scondi? E perché hai paura del tuo fratello Vali? Voi siete tutti molto for­ti e valorosi: chi è questo Vali che può incutervi così tanto terrore?" Sugriva raccontò la sua triste storia.
"Una volta mio fratello Vali, a causa di una donna, si inimicò un de­mone di nome Mayavi. Voi sapete chi era Mayavi: suo padre era il gran­de architetto degli Asura, Maya Danava. Mayavi decise di vendicarsi dell'affronto e di sfidare Vali in duello per ucciderlo. Un giorno venne alle porte della città e ruggì con ferocia, gridando furiose ingiurie nei confronti di mio fratello. Vali, che non ha mai saputo tollerare le offese e ha sempre avuto un temperamento irascibile, si precipitò fuori, per nulla intimorito dalla forza dell'avversario. Io lo seguii per aiutarlo. Quando Mayavi vide che eravamo in due preferì fuggire. Noi lo inseguimmo e, sebbene corresse molto velocemente, non perdemmo le sue tracce, finché entrò in una caverna buia e profonda. Noi ci fermammo, timorosi di en­trarvi. Ma l'Asura doveva essere ucciso, altrimenti sarebbe stato sempre una spina nel nostro fianco. Coraggiosamente Vali mi disse di restare a guardia dell'entrata della caverna: lui da solo sarebbe andato a scovare e ad uccidere il demone. Io temevo per la sua vita, ma Vali non sentì ra­gioni. Se gli succedeva qualcosa il regno di Kiskindha doveva avere un altro re. E si inoltrò nella tenebrosa caverna.
"Passò molto tempo e Vali non tornava. Un anno intero trascorse nel­l'angoscia quando, proveniente dalle viscere della caverna, udii delle gri­da furiose e dei ruggiti simili a quelli di un gigantesco leone. E vidi un ruscello di sangue scorrere dall'entrata della caverna. Preso dal panico pensai che Vali fosse stato ucciso e che avrei dovuto pensare alla sicu­rezza del regno. Così presi un enorme macigno e chiusi l'entrata della caverna. Tornato a Kiskindha piansi mio fratello per morto e celebrai il suo funerale. Così divenni il re.
"Ma Vali non era morto: in realtà aveva vinto il duello e quel sangue era di Mayavi. Dopo averlo ucciso Vali tornò verso l'uscita della caverna e la trovò ostruita. Con grande sforzo riuscì a spostare il macigno e corse a Kiskindha. Nella sua mente si era fatto strada il sospetto: che l'avessi tradito? Che avessi cercato di non farlo più uscire per godermi il suo regno? E mi trovò sul trono. A quel punto la sua rabbia esplose e mi accusò apertamente di tradimento. Mi cacciò dal regno e mi minacciò, dicen­domi che se mi avesse visto ancora mi avrebbe ucciso. Così io mi sono rifugiato qui dove Vali non può venire.
"Io non posso fare niente contro di lui, Vali è troppo forte. Nessuno di noi può sfidarlo. Ecco perché ci nascondiamo qui, in questo posto a lui proibito."
"Perché dici che Vali non può venire qua?" chiese Rama. "Cosa c'è di speciale per lui in questo luogo?"
"Prima della battaglia con Mayavi," rispose Sugriva, "Vali aveva combattuto e ucciso il fratello del demone, Dundubhi. Questo Asura a­veva assunto la forma di un bufalo gigantesco e, inorgoglito dalla sua straordinaria forza fisica, vagava per il mondo in cerca di un avversario degno da affrontare. Quando andò sulla montagna Himalaya per sfidare Himavat, la divinità che lì predominava, si sentì dire:
"O grande Asura, non riesci a trovare un avversario perché sei troppo forte. Neanche io desidero combattere contro di te perché per natura sono pacifico e do rifugio ai saggi e a coloro che sono della mia stessa natura. Però posso darti un consiglio: in questo mondo c'è un degno avversario per te ed è Vali, il figlio di Indra. Sii certo che lui placherà il tuo deside­rio di combattimento."
"Allora Dundubhi corse a Kiskindha e sfidò l'invincibile Vali che lo uccise, e in preda alla furia lo gettò a molte miglia di distanza. Mentre la carcassa del demone-bufalo volava nell'aria, alcune gocce di sangue cad­dero nell'eremo del saggio Matanga. Poi la carcassa cadde nelle vicinan­ze. Disturbato dal rumore, il saggio uscì e vide il corpo.
"Chi ha gettato questo cadavere vicino al mio ashrama?" si chiese Matanga. "Chi l'ha contaminato irrimediabilmente in questo modo?"
"In meditazione vide ciò che era successo e seppe che era stata colpa di Vali. Arrabbiato, maledisse Vali.
"Se quella scimmia metterà mai piede in questo posto, morirà istanta­neamente."
"Matanga cambiò eremo. Per questo motivo Vali non osa venire qua. Conosce bene la potenza spirituale di Matanga. Così in questo posto io sono al sicuro."


Sugriva continuò il suo discorso.
"Ora ti porterò a vedere ciò che rimane della carcassa di Dundubhi, cosicché tu possa renderti conto di quanto Vali sia forte."
Il gruppo s'incamminò, e in pochi minuti arrivarono nelle vicinanze di ciò che prima era l'eremo di Matanga. Non lontana l'enorme carcassa del demone. Rama si avvicinò. Aveva bisogno dell'aiuto di Sugriva per ri­trovare Sita, e per questo doveva aiutarlo contro Vali. Era necessario pe­rò convincerlo che era in grado di uccidere il potentissimo Vanara. Senza alcuno sforzo, toccò quella montagna di ossa con l'alluce di un piede. E come per magia quella si staccò dal suolo e volò in aria per molte miglia. Sugriva sorrise, compiaciuto. Ma non era convinto.
"Caro amico," gli disse con un grande sorriso, "questa che mi hai da­to è una prova della tua grande forza, però quando Vali ha gettato in aria il corpo era pesante di carni e interiora. Non offenderti, quindi, se ti chiedo un altro saggio del tuo valore."
Con calma solenne, il principe Rama estrasse una freccia dalla faretra e mirò in direzione di sette enormi alberi sal. La freccia partì, trafisse gli alberi, entrò nella terra e raggiunse i pianeti Patala. Dopo un'ora la frec­cia tornò nella faretra. Sugriva era stupefatto e allo stesso tempo pieno di un'irrefrenabile gioia. Ora si sentiva sicuro che Rama poteva sconfiggere Vali.
"Rama," chiese Sugriva con gli occhi che brillavano di gioia, "ti chiedo, per favore, uccidi Vali e restituiscimi la serenità che ho perso. In cambio prometto che ti aiuterò a ritrovare Sita."


Uno dei Vanara che era nel gruppo porse a Sugriva uno scialle e altri oggetti. Egli li dette a Rama.
"Sono di Sita, questi?" chiese.
Vedendo lo scialle e il bracciale dell'amata, Rama li afferrò e prorup­pe in un grido di gioia, preso da una fortissima emozione.
"Come hai avuto queste cose? Sono lo scialle e i bracciali di Sita!" "Una sera eravamo in una radura non lontana da qui," raccontò Su­griva, "quando vedemmo in cielo un'enorme figura che teneva stretta a sé una donna giovane che piangeva e che si divincolava disperatamente. Quando ci vide ci lanciò questi oggetti che raccogliemmo e conservammo. Subito dopo avermi raccontato la tua storia ho capito che appartene­vano a lei."
Così l'alleanza tra i due fu definitivamente suggellata.
Tutti insieme prepararono il piano per sfidare e sconfiggere Vali. "Mio fratello è troppo forte per essere affrontato in modo leale," disse subito Sugriva. "Dobbiamo trovare la maniera di non trovarci faccia a faccia di fronte con lui."
"Io ho un'idea," ribatté Rama. "Potremmo fare così. Tu lo sfiderai in combattimento. Io mi nasconderò nei pressi e mentre lottate ed è distrat­to lo colpirò."
Rama vide nel viso di Sugriva il terrore di dover affrontare il fratello, anche se per pochi minuti.
"Non temere per la tua vita: non ti tradirò, interverrò presto."
Sugriva non era affatto entusiasta del piano, ma aveva piena fiducia in Rama, perciò accettò l'idea e partirono subito verso la città. Quando furono arrivati, Sugriva andò sotto le mura e cominciò a gridare e a chiamare il fratello, sfidandolo in duello. Vali sentì le grida e si sorprese della sua temerarietà. D'impeto uscì dal palazzo e corse verso Sugriva. Rama, nascosto dietro un albero, osservava la scena. Ammirò subito la figura alta, agile, possente di Vali e gli dispiacque di doverlo uccidere. I due fratelli si gettarono l'uno contro l'altro e lottarono furiosamente, sen­za esclusione di colpi. Rama pose subito una freccia nell'arco, ma non riusciva a distinguere l'uno dall'altro, tanto si somigliavano. Preferì non rischiare di commettere un errore fatale. Nel frattempo Sugriva non se la stava passando bene e si chiedeva cosa aspettasse Rama ad intervenire. Ferito, sanguinante, malconcio e come al solito sconfitto dal fratello, Su­griva non se la sentì più di aspettare e batté in ritirata. Raggiunto il na­scondiglio di Rama, Sugriva era visibilmente terrorizzato. Ansimava.
"Ma cosa è successo?" gridò. "Perché non sei intervenuto? Vali mi ha quasi massacrato."
"Non ho potuto fare niente," rispose il principe. "Siete così simili l'uno all'altro che è impossibile distinguervi. Mettiti questa ghirlanda al col­lo e torna a sfidare Vali. Stavolta interverrò subito."
Sugriva, con la grossa ghirlanda al collo, chiamò ancora il suo terri­bile fratello al combattimento. I due poderosi guerrieri sollevavano e­normi nuvole di polvere e il sangue schizzava tutt'intorno. Ma ora Rama poteva distinguere i due: pose di nuovo la freccia sul suo arco e stavolta la lasciò partire. Vali fu trafitto al petto e cadde sul terreno, privo di for­ze, moribondo.
Lentamente Rama e Lakshmana si diressero dove il valoroso guer­riero giaceva e lo salutarono. Nella città la notizia si diffuse come il fuo­co in un pagliaio e a migliaia vennero a rendere l'ultimo saluto al re mo­rente.
"Solo in questa maniera sleale Vali poteva essere ucciso," qualcuno sussurrava. "Vergogna e disonore a chi ha ingegnato un piano così vile." Vali aprì gli occhi e guardò quelli bellissimi e dolci di Rama.
"Io ti conosco... so chi sei... la tua fama è chiara e senza macchia... io ho sempre saputo che eri un principe pieno di virtù... come hai potuto colpire un avversario così... a tradimento?"
Rama non rispose. E il valoroso Vanara, respirando a fatica riprese a parlare.
"Nonostante ciò che hai fatto io ho fiducia in te. Ti affido mia mo­glie... Tara... e mio figlio Angada... proteggili, curati di loro.. dopo la mia morte."
Così il grande Vali morì, pianto da tutti gli uomini giusti. In suo ono­re vennero eseguite rispettose esequie.
Sugriva fu nominato re di Kiskhindha e Angada, il figlio di Vali, principe reggente. Terminate le cerimonie, i due invitarono Rama a vi­sitare la città. Ma lui declinò l'invito.
"Cari amici, mi dispiace di non poter accettare il vostro invito, ma la promessa fatta a mio padre mi impedisce di visitare qualunque città pri­ma dello scadere dei quattordici anni. Preferisco dunque vivere in qual­che caverna qui vicino. La stagione dei monsoni si sta avvicinando. Quando sarà finita cominceremo le ricerche di Sita, come mi avete pro­messo."
Rama e Lakshmana trovarono una caverna adatta alle loro esigenze. Sugriva entrò nella città e si dette alla pazza gioia per festeggiare il trono conquistato. Dopo tanti sacrifici voleva gustare i piaceri della vita, e non si accorgeva del passare inesorabile del tempo.
Per Rama invece il tempo passò lentamente e dolorosamente. Il pen­siero di Sita lo ossessionava e non lo lasciava un solo momento. Poi giunse la stagione delle piogge.
E anche la stagione delle piogge finì. Arrivò l'autunno e la natura, sa­ziata dalla vivificante acqua, sbocciò in tutta la sua bellezza. Vivendo fra quelle bellezze, Rama sentì ancora di più il dolore dell'assenza dell'amata.
Sugriva non si era più fatto sentire. Intossicato dal potere e dalle gioie dei sensi, sembrava che si fosse dimenticato delle promesse fatte e del voto di gratitudine verso colui che gli aveva dato quelle opulenze. Rama cominciò a diventare inquieto e irritato.
"Lakshmana, Sugriva non si è fatto più vedere. Non vorrei che si fos­se dimenticato della promessa fatta. Io gli ho ridato il regno e la vita, uc­cidendo Vali e non pretendendo niente per me, e ora lui sta godendo del­la vita, senza preoccuparsi della mia sofferenza. Vai a ricordargli chi de­ve ringraziare per tutto ciò che ha. Digli che non riesco più a sopportare il dolore della separazione da Sita."
Ben più arrabbiato del fratello per il comportamento di Sugriva, La­kshmana si affrettò a raggiungere la vicina Kiskindha. II suo viso non prometteva niente di buono per i Vanara: aveva l'aspetto di uno che volesse distruggere il mondo intero. Vedendolo in quell'atteggiamento, i Vanara che lo incontrarono tremarono di paura e temettero per la vita del loro re e per il bene del regno. Qualcuno lo precedette, annunciando a Sugriva che Lakshmana stava arrivando con un cipiglio furibondo. Nel momento in cui i messaggeri arrivarono, egli era ebbro e giaceva nel let­to con sua moglie. Ma quando venne a sapere dell'arrivo dell'infuriato Lakshmana, saltò dal letto impaurito e gli corse incontro per riceverlo. Quando lo vide arrossì violentemente.
"Vedo che sei molto in collera. Ma io non ho dimenticato la promessa fatta a Rama. Come potrei? Tutto ciò che possiedo lo devo a lui. Ho mandato il mio generale Nila a raccogliere i nostri eserciti. Presto arrive­ranno e troveremo Sita. Non pensare male di me. Non sono un ingrato."
E moltissimi Vanara da ogni parte del mondo cominciarono presto ad arrivare. Erano cosi tanti che sembravano le onde del mare o tanti fiumi in piena. Tutti erano valorosissimi guerrieri e fedeli alla missione del lo­ro re. Era impossibile contarli, né avere un'idea del loro numero. Quindi Sugriva andò da Rama e chiese perdono per il ritardo. E persino mentre i due discorrevano, innumerevoli Vanara continuarono ad arrivare.
Ora si doveva cercare il regno di Ravana, dove era prigioniera Sita. Sugriva riunì i suoi combattenti. Divise l'esercito in quattro parti e man­dò il primo contingente, guidato da Vinata, al nord. Verso est mandò un secondo contingente guidato da Sushena. Verso ovest un grande esercito guidato da Shatabali. Verso il sud invece un battaglione guidato da Ha­numan, Nila e Angada. A tutti Sugriva raccomandò di tornare entro un mese. Chiunque non fosse tornato in tempo sarebbe stato severamente punito.
Prima della partenza, Rama incontrò i capi della missione. Voleva parlare con loro, incoraggiarli, raccomandare di fare presto, di mettercela tutta.
"La mia felicità e il mio futuro," disse loro, "sono nelle vostre mani. Che la fortuna vi assista."
Rama guardò Hanuman, per il quale nutriva un affetto speciale. Poi gli raccontò diverse storie, quella della nascita di Sita, della sua vita e molte altre.
"In te ripongo la mia speciale fiducia," gli disse. "Prendi questo anel­lo e quando troverai Sita mostraglielo. Da questo segno lei capirà che tu sei veramente un mio inviato. Narrale le storie che ti ho raccontato. Lei avrà fiducia in te e le infonderai coraggio. Andate, presto, partite ora, e tornate con buone notizie."
Hanuman porse rispettosi omaggi ai piedi di Rama. Con grande cla­more gli eserciti partirono.
Quando aveva istruito i suoi Vanara sui luoghi dove avrebbero do­vuto andare, Rama si era accorto che Sugriva aveva dimostrato una per­fetta conoscenza geografica di tutto il pianeta. Era curioso di sapere co­me l'aveva acquisita.
"Quando Vali mi cacciò dal regno," rispose Sugriva, "fuggii per pau­ra di essere ucciso e lui mi inseguì per tutto il globo. Fu allora che, per forza di cose, imparai a conoscere questo mondo."
Cominciarono con l'attesa impaziente del ritorno degli eserciti, spe­rando di avere buone notizie.

Dopo un mese Vinata tornò dal nord senza aver trovato alcuna traccia di Sita. Poi tornarono Sushena e Shatabali, con lo stesso risultato. Ma se­guiamo il gruppo di Hanuman e Angada nel loro viaggio verso il sud.
I Vanara procedettero velocemente, attraversando montagne e vallate, incontrando eremi e imbattendosi in molte avventure. Un giorno Angada uccise un demone credendo che fosse Ravana.
Il mese stava per terminare e cominciarono ad avere timore per la pu­nizione che Sugriva aveva minacciato di infliggere loro se fossero arriva­ti in ritardo. Il tempo stava per finire inesorabilmente, ma non volevano arrendersi, volevano trovare Sita. Cercarono ovunque, strenuamente, senza un momento di riposo, senza mangiare, senza concedersi tregua. Un giorno in una caverna incontrarono un asceta di nome Swayampra­bha. E in quei giorni il mese terminò. Si trovavano sulle pendici di una montagna rocciosa e sotto di loro si stendeva l'ennesima vallata. Angada guardò i suoi compagni: era sfiduciato.
"Amici miei," disse, "il mese è finito e voi sapete quanto sia crudele Sugriva. Ci punirà severamente per il ritardo. Non ci lascerà vivere dopo avergli disobbedito. Ricordate con quanta malvagità e con quale slealtà ha fatto uccidere mio padre? Non riusciremo a trovare Sita. E piuttosto che essere punito e ucciso da lui, preferisco digiunare fino alla morte. Non riusciremo a trovare Sita. Per noi non c'è più speranza. Io preferisco morire qui."
Hanuman incitò i Vanara a continuare la ricerca, a non disperare ma, stanchi e sfiduciati, i Vanara non lo ascoltarono. Angada ed altri comin­ciarono il digiuno.
Sulla cima del monte viveva un gigantesco avvoltoio. Guardando i Vanara che si apprestavano a digiunare fino alla morte, ringraziò la provvidenza di avergli mandato così tanto cibo senza nessuno sforzo. Sampati - così si chiamava - uscì dalla sua caverna e si mise a osservare i Vanara che digiunavano, aspettando la loro morte. Ricordate? Sampati era il fratello maggiore di Jatayu, che era morto nel tentativo di proteggere Sita. Angada vide il grosso avvoltoio e cominciò a lamentarsi.
"Amici, guardate quell'avvoltoio. Presto si ciberà delle nostre carni. Ma dobbiamo essere pronti anche ad abbandonare la nostra vita per ser­vire Rama. Ricordate Jatayu a Panchavati? Ha sacrificato la sua vita per servire Rama. Coraggio, dunque: affrontate la morte da eroi."
Sampati sentì il nome del fratello e solo allora apprese della sua morte.
"Principe, il mio nome è Sampati," gridò ad Angada. "Quel Jatayu che prima hai nominato era il mio fratello minore. Ho sentito che è mor­to. Raccontami come è accaduto. Raccontami chi è quella persona per la quale ha sacrificato la sua vita e come l'ha incontrato."
Sampati non aveva più le ali e si muoveva con difficoltà. Angada e gli altri erano diffidenti. Era veramente, quel grosso avvoltoio, il fratello di Jatayu?
"Aiutatemi a scendere giù da voi," disse cercando di scendere. "Le mie ali sono state bruciate dai raggi del sole e da quel giorno non mi è stato più facile muovermi."
I Vanara furono presi dal sospetto che stesse mentendo per mangiarli prima che fossero morti, ma decisero ugualmente di aiutarlo a scendere. Sceso tra di loro, Sampati non mostrò cattive intenzioni e i Vanara si rin­cuorarono. Angada gli raccontò la storia di Rama, il rapimento di Sita, lo scontro di Jatayu con Ravana e la sua morte. Poi raccontò anche la storia dell'alleanza di Rama con Sugriva, la morte di Vali e la drammatica ri­cerca di Sita. Quando Angada ebbe finita la storia, Sampati sembrava tri­ste.
"Jatayu era la persona più cara che avevo. E' per lui che ho sacrifi­cato le mie ali. Sapete, un giorno, molto tempo fa, stavamo tornando dai pianeti celesti e vidi che lui soffriva per il caldo eccessivo. Vedendolo così sofferente lo coprii con le mie ali, ma quel giorno i raggi del sole erano così forti che mi bruciarono e caddi su questa montagna chiamata Vindhya, dove ci troviamo ora. Da quel giorno non ho saputo più niente di Jatayu."
Angada pensò che forse Sampati, che viveva sulle cime di quelle montagne, poteva aver saputo o visto qualcosa che poteva aiutarli nella ricerca. Non ci sperava molto, ma si sa, la speranza è l'ultima a morire.
"Forse tu puoi aiutarci," gli chiese. "Sai qualcosa di Sita? Hai visto niente di strano? Aiutaci, se puoi."
Sampati rifletté un momento.
"Si," rispose lui, "ora che ci penso ricordo di aver sentito parlare di una bellissima donna che veniva portata via da un grande Rakshasa. Lei gridava: Rama! Rama! aiuto!, e cercava di districarsi dalla presa. Dal vostro racconto penso di poter mettere in relazione il rapimento di Sita con quella storia.
"Sapete perché vi dico tutto questo? Ve lo dico perché voglio ven­dicare la morte di mio fratello, e vi dirò anche dove si trova il regno di quel demone. Sicuramente troverete Sita lì. Quel Rakshasa era Ravana e il suo regno è l'isola di Lanka."
A quella notizia tutti i Vanara sgranarono gli occhi dalla gioia: non speravano più di trovare anche la minima traccia di Sita, che sembrava svanita nel nulla. Tutti cominciarono a saltare dalla gioia e si abbrac­ciarono.
"Amico nostro carissimo," disse il saggio Jambavan a Sampati. "Non puoi neanche immaginare quanto conforto e felicità ci abbia dato questa notizia. Ma come sei venuto a sapere di questo fatto?"
"Io ho un figlio che si chiama Suparsva," rispose. "Da quando le mie ali sono state bruciate dal sole è lui a procurarmi il cibo e ogni giorno viene nella caverna dove abito. Un giorno arrivò in ritardo e gliene chiesi le ragioni. Ero molto affamato e mi accorsi in modo particolare del ritar­do. Mi raccontò che aveva visto un gigantesco Rakshasa che volava e che portava con sé una donna giovane e bella che si dimenava e urlava: Rama! Rama! Si incuriosì su chi potesse essere quel Rakshasa così maestoso e lo chiese ai saggi della montagna: loro gli dissero che era Ravana e che quella donna era Sita. Ora sapete perché ero al corrente del passag­gio di Ravana."
"Ora voglio raccontarvi alcuni dettagli della mia storia che ancora non sapete.
"Quando caddi sulla montagna con le ali bruciate e completamente inutilizzabili, scesi faticosamente dal picco di questa montagna e lì vici­no incontrai un saggio di nome Nishakara. Lui mi vide e mi chiese:
"Cosa ti è successo? Perché le tue ali sono bruciate?"
"E io gli dissi: cercando di proteggere la vita di mio fratello mi sono avvicinato troppo al sole e così mi sono bruciato. In questa condizione la mia vita non ha senso e quindi desidero morire saltando giù dal picco della montagna."
"No, non farlo," disse il misericordioso saggio. "Non ti preoccupare per questa tua infermità perché riavrai presto le tue ali. Un giorno incon­trerai i fedeli Vanara amici di Rama, alla ricerca della sua cara moglie. Se tu darai loro le indicazioni necessarie per ritrovarla riacquisterai le tue ali."
E proprio mentre Sampati parlava con i Vanara, un paio di meravi­gliose ali spuntarono dal suo corpo. Colmo di gioia, Sampati spiccò il volo e cominciò a volteggiare in cielo.
"Non preoccupatevi, presto ritroverete Sita. Andate più a sud, oltre l'oceano. Sita è lì," gridò dall'alto.
E scomparve in cielo. Rincuorati da Sampati, i Vanara si diressero più a sud.

Dopo molti altri chilometri, il gruppo arrivò sulle rive dell'oceano. Secondo le indicazioni di Sampati, a molti chilometri di distanza c'era Lanka, e a Lanka c'era Sita, l'oggetto della loro ricerca.
I Vanara guardarono il grande oceano e la distanza che li separava dall'isola. Si guardarono in volto l'un l'altro: e come avrebbero potuto superare un oceano così grande? Furono presi di nuovo dallo scorag­giamento. Vedendo le facce attonite dei suoi migliori guerrieri, Angada volle incoraggiarli, dare loro la speranza.
"Nessuno di voi," tuonò, "i migliori guerrieri che ci siano, è in grado di saltare la distanza che ci separa da Lanka? Come è possibile?"
Nessuno osò parlare.
"Quanto pensate di essere in grado di saltare?" chiese ancora. "Perché non rispondete?"
Ancora una volta nessuno rispose. Angada, il figlio di Vali, non si perse d'animo.
"Non potremo mai tornare orgogliosamente nelle nostre case, dalle nostre famiglie, senza aver ritrovato Sita. Riprendete coraggio, dunque, e ditemi quanto ognuno di voi pensa di poter saltare."
Ogni Vanara dichiarò le proprie capacità, ma nessuno si sentì in gra­do di saltare le ottocento miglia di oceano. Allorché Jambavan in­tervenne.
"Io sono in grado di saltare ottocento miglia," disse, "ma non so se poi sarei in grado di tornare."
"Anch'io so di poter saltare ottocento miglia," dichiarò poi Angada stesso, "ma non sono sicuro di essere in grado di tornare."
A questo punto un silenzio agghiacciante scese tra gli eroici Vanara: tutti avevano parlato e nessuno si riteneva capace di una simile impresa. Solo Hanuman non si era ancora pronunciato. Stava seduto in disparte e non partecipava alla discussione. Tutti lo guardavano, ora. Jambavan si avvicinò a lui.
"Hanuman, tu sei capace di saltare ottocento miglia," gli disse. "Io lo so."
Hanuman lo guardò, sinceramente stupito.
"Io non ne sono capace. Cosa dici? Come potrei fare una cosa si­mile?"
"Tu non ricordi chi sei e i poteri che possiedi," incalzò Jambavan. "Ascoltami pazientemente e ti narrerò la storia della tua gioventù e di come tu l'abbia dimenticata."
Jambavan gli raccontò tutta la storia e Hanuman ricordò di avere straordinari poteri che gli potevano permettere fantastiche imprese. Così decise di andare a Lanka saltando oltre l'oceano. Salì sul monte Mahen­dra e si concentrò. Poi fletté le gambe contro il terreno per darsi la spinta e l'enorme montagna gridò di dolore. Dentro di sé Hanuman pensava so­lo a Lanka.



Sundara Kanda

 Nel cuore devoto di Hanuman non c'era altro che il prepotente desiderio di raggiungere Lanka e di ritrovare Sita. Pressando con forza sovrumana la montagna Mahendra, spiccò il salto. I Vanara lo videro saettare nell'aria, sollevando un vento im­petuoso. AI suo passaggio l'oceano si agitò e si alzarono onde gigante­sche.
Ravana aveva causato grandi sofferenze a tutti, e quindi chi vide Hanuman dirigersi verso Lanka per porre fine a quella sciagurata carriera provò una forte gioia. Anche la divinità che predomina sull'oceano sentì questa felicità e pensò di aiutare il possente Vanara nell'impresa. Nelle profondità delle acque giaceva una grande montagna di nome Mainaka. Raggiungendola, Varuna le chiese di sorgere dalle profondità del mare per offrire a Hanuman un posto dove riposarsi.
Si racconta che un tempo, milioni di anni fa, le montagne avessero le ali e volassero in cielo con grande velocità. I Deva e i Rishi, impauriti dal continuo pericolo di queste grandi masse volanti, chiesero a Indra di intervenire e di tagliare quelle ali. E mentre il re dei Deva procedeva a lanciare contro di loro la sua arma preferita, il possente fulmine, Maina­ka, aiutata da Vayu, scappò. Nascondendosi nelle profondità dell'oceano sfuggì alle ire di Indra. Da quel tempo Mainaka era rimasta lì, bloccando la via di accesso per Patala. Mainaka era riconoscente a Vayu per averla aiutata e pensò di rendere il favore aiutando Hanuman. Mainaka sorse dall'oceano e offrì le sue pendici al Vanara per riposarsi. Ma Hanuman lo ritenne una perdita di tempo per la sua missione e spostò la montagna con una manata, liberandosi il passaggio. Mainaka ammirò la sua forza e la sua determinazione: perciò lo benedì e lo lasciò passare. Hanuman continuò il viaggio.
Mentre Hanuman procedeva a grande velocità verso la sua desti­nazione, Surasa, madre dei Naga, pensò di mettere alla prova le capacità di Hanuman. Così assunse la forma di una gigantesca Rakshasi ed emer­se dalle acque proprio mentre Hanuman stava passando. Lo guardò con ferocia e gli parlò, assumendo un aspetto ostile.
"Io ho fame," disse Surasa, "e voglio che tu oggi sia il mio cibo. Ma ammiro anche le qualità dei valorosi, la sagacia e la forza. Tu sembri molto forte e voglio lasciarti una possibilità. Ti lascerò vivere se riuscirai ad entrare nella mia bocca e poi ad uscirne. Se sarai così abile ti lascerò andare."
Toccato nell'orgoglio, Hanuman volle mostrare a Surasa le sue ca­pacità ed espanse il corpo fino a dimensioni gigantesche. Ma altrettanto fece lei. E Hanuman si espanse ancora, ma Surasa lo imitò. I due conti­nuarono a ingigantirsi, finché Hanuman ridusse fulmineamente il suo corpo ed entrò nella bocca di Surasa. Incapace di ridursi altrettanto velo­cemente, Surasa non fece in tempo a chiudere le enormi fauci e Hanuman poté venirne fuori. Soddisfatta di questa prova di intelligenza, Surasa lo benedisse e lo lasciò continuare. Hanuman riprese il viaggio.
Mentre si stava avvicinando a Lanka, il nostro eroe incontrò una vera Rakshasi di nome Simhika, posta da Ravana a guardia di Lanka. Con grande rapidità Simhika lo ingoiò, ma Hanuman squarciò il suo ventre e ne uscì mentre la Rakshasi moriva. Poi vide la terraferma, Lanka, il re­gno di Ravana. Quanta gioia nel suo cuore!
Discese su un picco che si ergeva proprio vicino alla spiaggia. Ha­numan toccò rumorosamente terra, e si guardò attorno per vedere se era stato avvistato. Nessuno, grazie al cielo! Contrasse la sua forma maestosa in quella di una piccola scimmia e si diresse verso le mura della città. E la vide, quella città di cui aveva già sentito parlare come di una fortez­za favolosa. La mura erano enormi, indistruttibili, e bastioni e cancelli erano costantemente vigilati da centinaia di soldati armati fino ai denti. Sembrava inespugnabile. Attese la notte e poi, con grande cautela, si di­resse verso le mura della città. Così piccolo, gli fu facile passare inosser­vato. Ma appena fu entrato la divinità di Lanka in persona, una potente Rakshasi, lo fermò con voce tagliente.
"Dove vai tu? Io sento che tu sei un nemico dei Rakshasa. Non entre­rai in questa città: io te lo impedirò."
Armata di tridente Lanka si lanciò contro il suo antagonista, tentando di trafiggerlo. Hanuman schivò il colpo e la colpì con uno schiaffo. Nel suo cuore sentì il dispiacere di aver colpito quella che era una divinità e una donna, ma sentiva di non averne potuto fare a meno. Nonostante fos­se stata colpita in maniera non violenta, la potenza di quel colpo scara­ventò in terra Lanka. Hanuman passò oltre, senza curarsi più di lei. Lan­ka, pensierosa, guardò Hanuman addentrarsi nella città.
"Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato," pensò. "Non può essere altri che lui. Un giorno Brahma mi disse che la distruzione della mia città sarebbe stata imminente quando sarei stata sconfitta da una scimmia. Oggi sono stata sconfitta: quel momento, quello della distruzione della mia città, è arrivato."

Hanuman si addentrò nella città, vagando per le sue strade. Che luogo fantastico, pensò. Quante bellezze artistiche e architettoniche. Che pec­cato che simili bellezze debbano essere usate da un essere così empio. Girò per diverso tempo, finché arrivò in un palazzo straordinario per ma­estosità e per sfarzo. Dedusse che quello non poteva essere altro che il palazzo di Ravana. Aveva cercato minuziosamente lungo ogni strada, in ogni casa, in ogni recesso della città, e Sita non era da nessuna parte. Pensò che forse potesse essere nel palazzo reale. Entrò.
Il palazzo di Ravana era il massimo che un materialista potesse de­siderare. La mura erano fatte di marmo pregiato, costellato da milioni di pietre preziose che davano luce a differenti ore del giorno, e oro, argento, e tanti altri metalli di grande valore. E fiori e piante meravigliose ovun­que. Tutt'intorno in bellissimi letti giacevano stupende fanciulle addor­mentate ed ebbre. Bottiglie di vino erano sparse ovunque, e carni e cibi accuratamente cucinati. Quel palazzo conteneva tutto il meglio: era il sogno di ogni materialista. Ogni tipo di gratificazione dei sensi era all'ec­cesso, nel palazzo di Ravana, quella gioia sensoriale che lì sembrava essere la sola ragione di vita. Hanuman non guardò neanche in quei letti, sicuro che Sita mai si sarebbe concessa a quelle depravazioni.
Cercò dovunque, ma Sita non si trovava. Alla fine, in una stanza da letto piena di inenarrabili opulenze come mai ne aveva viste in pre­cedenza, gigantesco e splendente come il sole, vide Ravana in persona, il re dei Rakshasa. Osservò il suo corpo possente e fu ben contento che stesse dormendo. No, Sita non poteva trovarsi lì. La più casta delle donne avrebbe preferito morire piuttosto che giacere con uno che non fosse suo marito. Continuò a cercare, guardando in ogni angolo del vasto pa­lazzo. In un incantevole giardino vide il carro Pushpaka, che era stato di Kuvera, e si inchinò per rendergli rispettosi omaggi. Trovò l'harem, e in una stanza bellissima vide Mandodari, la moglie di Ravana. Hanuman fu abbagliato da tanto splendore. Era così bella che pensò fosse Sita. Fu preso da una grande gioia, ma poi ci ripensò.
"No, Sita non si sarebbe mai abbassata ad entrare nell'harem di Rava­na. Quella donna non può essere Sita. Non può essere lei."
Ma non riusciva a trovarla. Si sentiva sconfortato. Che l'avesse uccisa perché si era rifiutata di sottomettersi ai suoi voleri? Pensò che se Sita fosse morta avrebbe ucciso Ravana e digiunato fino a morire. Una rabbia immensa invase il suo cuore.
Dalla finestra di un palazzo vide un giardino nel quale non aveva an­cora guardato e volle andare a controllare. Mentalmente e con grande devozione chiese a Dio la misericordia di ritrovarla, di dargli successo nella sua missione. Entrò in quei giardini, detti Ashoka, e cercò attenta­mente nell'interno.
All'improvviso, in una radura circondata da alberi e cespugli, vide una donna così meravigliosa come nessuna poesia potrà mai descrivere appropriatamente. Ogni bellezza materiale svaniva e diventava nulla di fronte a quella bellezza trascendentale. La materia, così imperfetta, cadu­ca, illusoria, nascondeva il suo volto di fronte a quel corpo spirituale. Non poteva essere altri che Sita, Hanuman non aveva dubbi. Il suo cuore gli diceva che non poteva essere altri che Sita. Ricordando la descrizione che Rama aveva fatto, della sua età, delle sue fattezze fisiche, Hanuman riconobbe in lei la tanto agognata Sita.
La guardò con profonda devozione e amore spirituale, senza traccia di lussuria materiale, e riconobbe in lei la dea che aveva tanto adorato e servito. La guardò e la riguardò ancora. Una luce di profonda purezza emanava dal suo viso e i suoi pensieri erano persi in un mondo dove la materia non aveva accesso. Abbeverandosi alla sua figura spirituale, guardandola come un assetato guarda un'oasi dopo tanto vagare per un deserto di sabbie roventi, sentì estasi, una profonda felicità trascendenta­le. La bellezza celestiale di Sita era indescrivibile. Come poteva una donna così nobile e pura aver dovuto subire un fato così disgraziato? Questa domanda ossessionava la sua mente. Gli occhi del devoto Hanu­man si riempirono di lacrime e mentalmente offrì i suoi omaggi ai piedi di loto di Rama e Lakshmana.
Mentre era assorto in quella meditazione, Hanuman vide in lonta­nanza Ravana che si dirigeva verso di loro. Attorniato dai suoi ministri più fidati, Ravana camminava con passo fiero e deciso. Hanuman si na­scose dietro un cespuglio, non molto lontano, in modo da poter ascoltare.
Quando Sita vide Ravana avvicinarsi, il suo tenero viso si rabbuiò an­cora di più. Era chiaro che il Rakshasa veniva spesso a trovarla, sicu­ramente per tentare di convincerla ad abbandonarsi a lui. Ravana, visi­bilmente irato, la guardò severamente.
"E' passato quasi un anno," disse, "e hai vissuto tutto il tempo in que­sto giardino senza conoscere nessuna delle gioie alle quali hai diritto. Convinciti: Rama non arriverà mai. Diventa la mia regina. Non puoi ne­anche immaginare ciò che potrei darti."
Sita non rispondeva. Non lo guardava neanche. Ravana sapeva che quando Sita si comportava così era inutile anche tentare di parlarle. Ir­ritato, dette alcune istruzioni alle guardiane e si allontanò, guardandola con profondo desiderio. Appena Ravana si fu allontanato, esse cercarono in tutte le maniere di convincerla ad accettare il possente re come marito, ma Sita piangeva, si lamentava, chiamava il nome di Rama e non rispon­deva. Insensibili al disperato pianto, le Rakshasi la tormentavano sempre di più, minacciando di torturarla fino alla morte se non avesse cambiato idea. Sita continuava a piangere, disperatamente.
Improvvisamente una voce le fermò. Era Trijata, una Rakshasi ri­spettata come una maga dai grandi poteri divinatori.
"Basta. Smettetela," intimò a voce alta. "Non minacciate Sita. Non cercate di spaventarla. Mi sono appena svegliata da un sogno tremendo: ascoltate. Ho visto Rama che entrava trionfante a Lanka, seguito da eserciti di scimmie, e ho visto il terreno della città cosparso dei corpi dei no­stri mariti, dei nostri figli, dei nostri padri, dei nostri parenti e amici. Ho visto numerosi presagi che indicavano la vittoria di Sita su colui che l'ha rapita. Se questo sogno si avvererà, è meglio per noi di non maltrattarla in questa maniera, perché poi potrebbe vendicarsi severamente."
La Rakshasi, intimorite, non la molestarono più. Ma a quelle parole Sita non si era tranquillizzata di molto. Come poteva sperare ancora? Pensava.
"È passato un anno e Rama non è ancora arrivato. Forse non arriverà mai. Non riuscirà a trovare quest'isola inaccessibile e nascosta. Forse, chissà, mi ha persino dimenticata o ha rinunciato a cercarmi. La mia vita è un inferno. Il pensiero di Rama mi tortura. Non riesco a vivere senza di lui. E questi Rakshasa che mi tormentano tutto il giorno... non posso continuare a vivere così. Digiunerò fino alla morte pensando al mio ama­to Rama."
Ma in quel momento, quando aveva deciso di porre fine alla sua esi­stenza, un segno di buon auspicio apparve sul suo corpo. E poi altri, e altri ancora. Erano segni così chiari che Sita rinunciò al proposito di mo­rire.

Hanuman vide che Sita soffriva troppo. L'aveva trovata, è vero, e a­vrebbe dovuto correre subito indietro per guidare gli eserciti verso Lan­ka, ma non poteva lasciarla in quello stato. Doveva darle un segno, una ragione per continuare a sperare e a vivere. Saltò su un ramo dell'albero sotto il quale Sita era seduta sconsolata, e le bisbigliò delle parole. Lei, incuriosita, guardò su e vide la piccola scimmia.
Hanuman iniziò a raccontare la storia di Sita fin dall'inizio, fin dal momento della sua nascita, quando fu adottata da Janaka, e poi la storia di Rama. Stupita, Sita stava ad ascoltare il meraviglioso racconto.
"Cara Sita, fatti coraggio," le disse alla fine. "Le tue sofferenze stan­no per terminare. Non perderti di fiducia. Rama arriverà presto."
Lei lo guardò ancora, speranzosa ma anche diffidente. Che fosse un Rakshasa mandato da Ravana per carpire la sua fiducia? Pensò che i Ra­kshasa erano capaci di congiurare qualsiasi piano. Hanuman capì il suo stato d'animo.
"Io sono Hanuman, un caro devoto e amico di Rama. Siamo venuti a cercarti e ora, per fortuna, ti abbiamo trovata. Credimi. So che in un luo­go come questo è difficile aver fiducia in qualcuno, ma devi credermi: io sono un amico di Rama."
Sebbene fosse ancora diffidente, Sita pregò ardentemente gli dei che ciò che stava ascoltando fosse vero. Qualcosa che sentiva nel cuore gli dava speranza. Hanuman la vide titubante, insicura, e pensò che dovesse darle una prova della sua sincerità. Le lanciò l'anello che Rama gli aveva affidato, che cadde sul terreno con un dolce tintinnio. Sita lo raccolse e trasalì. Lacrime di gioia inondarono i suoi occhi.
"Ma è l'anello di Rama, è vero," disse Sita tutto d'un fiato. "Oh caro amico, come sta Rama? Perché ha tardato così tanto? Parla ancora di me? Mi pensa qualche volta? Parlami di lui."
Hanuman rispose con voce suadente, carezzevole. Voleva darle fi­ducia, infonderle coraggio, la speranza, anzi la sicurezza nella vittoria finale.
"Rama non ti ha mai dimenticata. Come puoi pensare una cosa del genere? Pensa sempre a te e la vita gli è intollerabile. Ha tardato perché ignorava dove tu fossi. Per questo non è ancora venuto a riprenderti. Ma ora che so dove sei, io lo porterò qui presto e ti libererà. Non dubitarne."
Hanuman le parlò della sofferenza che Rama stava provando lontano da lei, e Sita si rattristò ancora di più sentendo della sua infelicità. "Hanuman, per favore, corri via subito. Non rischiare restando ancora qui. Porta da me Rama al più presto. Fa in modo che possa rivederlo pre­sto."
Quanto grande e profonda era la sofferenza di Sita!
"Cara Sita," le disse col cuore gonfio di emozione. "Se vuoi posso portarti via subito io stesso. Basta che tu salga sulle mie spalle e ti porte­rò da Rama in un batter d'occhio."
Vedendo quanto Hanuman fosse piccolo, Sita dubitò che ne fosse ca­pace e sorrise. Hanuman allora assunse una forma gigantesca, così alto era che sembrava toccasse le stelle. Impressionata, Sita si coprì gli occhi con le braccia.
"Dubiti ancora che io possa portarti via da questo luogo orrendo?" disse lui. "Sali sulle mie spalle e rivedrai Rama fra pochi istanti."
Ma Sita non era neanche tentata.
"No, preferisco che venga Rama a prendermi," rispose lei con voce piena di riconoscenza e di speranza ritrovata. "Io lo conosco. So quanto sia fedele ai suoi principi. Non gradirebbe che io fossi salvata da qualcun altro. Lui vuole venire di persona. Vai subito. Porta qui Rama al più pre­sto."
"Vorrei qualcosa da mostrare a Rama," chiese dopo qualche istante Hanuman. "Potrebbe dubitare della veridicità delle mie parole. Come posso assicurargli di averti trovata? Cosa posso dirgli? O cosa posso por­targli?"
Sita pensò un momento: che messaggio poteva mandargli? "Raccontagli questa storia," disse poi. "Nessun altro oltre a me e a lui la conosce. Quel giorno eravamo soli, io e lui. Digli così:
"Una volta, quando eravamo ancora a Citrakuta, mentre stavi facendo le tue abluzioni, un corvo affamato mi attaccò. Io cercai di scacciarlo, ma non ci riuscii. Mi sentii irritata e spaventata, anche perché ero sola. Allora mi arrabbiai, e per i movimenti bruschi la gonna stava per cadermi. E con una mano cercavo di tenerla e con l'altra mi difendevo dagli artigli dell'animale. In quel momento tu tornasti e mi vedesti in quella situazione e pensasti che ero buffa; ridesti di cuore. Io mi lanciai tra le tue brac­cia, cercando protezione. Allora il corvo volò via. Ci sdraiammo sotto un albero e ci addormentammo, abbracciati l'uno all'altra.
"All'improvviso quel corvo malvagio tornò e mi attaccò ancora, graf­fiandomi sul petto più di una volta e profondamente. Le mie grida di do­lore e di paura ti svegliarono e vedesti che sanguinavo al petto. Allora non ridesti più, ma eri molto in collera.
"Chi è stato?" mi chiedesti con voce concitata. "Chi ti ha fatto quelle ferite?"
"E vedesti il corvo che stava per attaccarmi ancora. I tuoi occhi di­vennero rossi come il fuoco per la rabbia. Decidesti di ucciderlo. Dopo aver colto un filo d'erba kusha, recitasti un mantra per caricarlo con la potenza del brahmastra e lo lanciasti contro il corvo. Ma subito capim­mo che non era un semplice animale: era Jayanta, il figlio di Indra. Lui si accorse di essere in pericolo mortale, e quando vide il filo d'erba saettare verso di lui, tentò la fuga. E fuggì dappertutto, con l'arma che lo seguiva da presso, cercando qualcuno che potesse aiutarlo. Ma nessuno poteva fare niente contro quell'arma, lanciata dal tuo braccio possente.
"Jayanta fuggì per tutto l'universo, ma nessuno, nemmeno suo padre Indra, poté aiutarlo. Si sentì perduto. Così tornò da te e chiese perdono, e ti pregò di salvargli la vita.
"O Jayanta," gli rispondesti, "quest'arma una volta lanciata non può più essere ritirata, ma deve colpire e distruggere qualcosa. Però mi hai chiesto protezione, e io ti aiuterò. Scegli una parte del tuo corpo a cui puoi rinunciare e il brahmastra distruggerà solo quella."
"Jayanta rifletté a cosa fosse conveniente; poi decise di rinunciare al­l'occhio destro. Appena ebbe pronunciato quelle parole, l'arma fatale colpì."
Sita fece una pausa.
"Dì anche questo a Rama," disse poi riprendendo il discorso.
"Tu hai lanciato un'arma così terribile contro un semplice corvo che mi aveva graffiato il seno: perché allora non usi la stessa contro questi crudeli Rakshasa che mi stanno facendo soffrire molto di più? Perché non intervieni? Amato signore, ti prego, vieni subito a prendermi."
Sita pose nelle mani di Hanuman un gioiello che gli aveva regalato Rama e glielo affidò.
"Quando Rama vedrà questo gioiello sarà sicuro che mi hai ritrovata. Che tu possa essere benedetto, amico caro; ma parti, qui sei in pericolo, potresti essere scoperto. Parti e torna presto con Rama."
Era ora di ripartire. Sita era stata ritrovata sana e salva, l'aveva inco­raggiata; inoltre aveva visto Lanka, le sue fortificazioni, e il numero de­gli avversari. Ma aveva bisogno di conoscere anche la loro forza individuale, il loro valore in combattimento. E soprattutto voleva incontrare Ravana. Decise di abbandonare l'incognito e di dare battaglia. Assunse così una forma gigantesca e attaccò con violenza i guardiani del giardino, uccidendoli.


In pochi minuti distrusse l'intero giardino Ashoka. L'allarme corse per la città e Ravana fu avvertito dell'accaduto.
Informato della presenza di un nemico a forma di scimmia, Ravana mandò il potente figlio di Prahasta a eliminarlo, ma dopo un breve com­battimento Hanuman lo uccise. E continuò a distruggere le foreste circo­stanti e poi anche il santuario. Durante l'opera di devastazione uccise molti soldati che tentarono di opporglisi. Usando un enorme pilastro di marmo, Hanuman massacrò gli altri sette figli di Prahasta insieme ai sol­dati che li seguivano.
Era terribile. Si muoveva con una velocità impressionante ed era dif­ficile persino vederlo. La forza dei suoi colpi, poi, era così grande che nessuno sopravviveva al primo. Terrorizzati, molti Rakshasa fuggirono. E man mano che le notizie delle sconfitte arrivavano, Ravana era sorpre­so e sdegnato. Tanti bravi combattenti sconfitti da una scimmia! Mandò persino uno dei suoi figli, il potente principe Aksha, ma anche lui fu uc­ciso. Stanco di quei massacri, Ravana convocò Indrajit, il suo figlio maggiore, che corse nel luogo dove Hanuman era ancora impegnato in una massiccia opera di distruzione, e divampò un terribile duello. Ma il virtuoso Vanara aveva deciso che era ora di vedere il re in persona e si lasciò catturare. Legato e trascinato con forza, fu condotto alla presenza del crudele Rakshasa.
Ravana era seduto sul maestoso trono d'oro massiccio tempestato di varie pietre preziose e la sala delle riunioni era di un'opulenza celestiale. Hanuman fu colpito dalla sua grandezza e dal suo splendore, e pensò che se non fosse stato per la sua mentalità così grossolana, così egoistica, Ravana avrebbe potuto regnare su tutti i pianeti dell'universo. Ma questo materialismo così grossolano, rifletté Hanuman, sarebbe stato sicuramen­te la causa della sua fine. Ravana, rivolgendosi verso il suo primo gene­rale Prahasta, gli ordinò di interrogarlo. E Prahasta, ancora sconvolto per la morte dei suoi figli, tentò di avere informazioni.
"Perché hai fatto tutto questo?" gli chiese. "Perché hai distrutto la fo­resta Ashoka? E perché hai ucciso così tanti dei nostri soldati? Chi ti manda? La tua vita è ora appesa ad un filo molto sottile: non spezzarlo per orgoglio."
Hanuman non aveva alcun timore, la sua voce uscì forte e fiera.
"Io sono Hanuman della razza dei Vanara. Sono un messaggero di Rama e sono venuto qua per ritrovare sua moglie. Ho distrutto i giardini perché volevo combattere contro di voi e poi lasciarmi catturare per vedere Ravana. Non illudetevi: Indrajit non avrebbe mai potuto catturarmi in questo modo, ma ho subito il potere delle sue armi per essere condotto qui, per parlare con Ravana."
Senza degnare Prahasta di un altro sguardo, si girò a guardare Rava­na. I suoi occhi erano duri e accusatori.
"Re dei Rakshasa, se ti preme la vita restituisci Sita al suo legittimo marito. Forse così potresti ottenere il suo perdono. Ma se non farai come ti ho detto, è certa la tua fine e la distruzione della tua città e dell'intera tua razza. Non puoi combattere contro di noi, la nostra forza è incom­mensurabile. Hai visto cosa ho saputo fare ai tuoi soldati? E io non sono altro che uno dei tanti che presto verranno qua, determinati a sterminare ogni Rakshasa che incontreranno."
Colpito nel vivo da quelle parole insolenti, l'irruente Ravana perse la calma e ordinò che il Vanara fosse messo a morte. Ma in quel momento Vibhisana, suo fratello minore, lo fermò.
"Ravana, mi meraviglio di te," gli gridò, fermando le guardie che a­vevano già afferrato Hanuman per le braccia. "Hai dimenticato le regole della vita di un re e di un guerriero? Un ambasciatore non può mai essere ucciso, per quanto offensivo sia il messaggio che porta. Hanuman è un messaggero e non deve essere ucciso."
Ravana digrignava i denti: non si era ancora calmato.
"Caro fratello, sei sempre pronto a ricordarmi le regole che gover­nano la nostra vita," gli disse con tono sarcastico. "Sono d'accordo con te. Ma un messaggero che abusa della sua missione e dell'immunità che il ruolo gli conferisce può e anzi deve essere punito in maniera esempla­re. Se un re non punisce un criminale nessuno avrà più il timore di lui e nessuno gli obbedirà più. E il regno andrebbe in sfacelo. Io devo quindi punire questa scimmia insolente.
"Appiccate fuoco alla sua coda e portatelo in giro per la città. Mo­stratelo a tutti. Che nessuno pensi che Ravana non impartisca con se­verità la giustizia."
Le guardie trascinarono Hanuman fuori della sala del trono. Avvolse­ro la sua coda con degli stracci e li inzupparono di olio. Poi le ap­piccarono fuoco. Così le guardie portarono Hanuman in giro per le strade di Lanka, esponendolo al ridicolo del popolo. La gente si divertiva molto a vedere quella scimmia con la coda che bruciava e tutti lo schernivano. Anche Sita venne a sapere dell'accaduto e pregò sinceramente il Deva del fuoco di non bruciarlo, di non fargli provare dolore.
Ma l'intelligente Hanuman aveva il suo piano. Riducendo improv­visamente le dimensioni del suo corpo, si liberò delle corde e uccise le guardie che lo scortavano. La gente affollata, quando lo videro libero, scapparono tutti via gridando allarmata. Con la coda infuocata, Hanuman decise di bruciare Lanka. Correndo a tutta velocità, appiccò fuoco a tutte le case, risparmiando solo quella di Vibhisana. II cielo era rischiarato da quell'enorme falò. E quando i Deva e i Rishi del cielo videro Lanka bru­ciare danzarono e cantarono dalla gioia. Hanuman era quasi ebbro di gioia, ma subito un pensiero lo folgorò.
"E Sita? Mio Dio, come ho fatto a non pensare a lei? Anche Sita potrebbe essere morta nell'incendio."
E maledicendo la sua impulsività corse verso ciò che rimaneva dei giardini Ashoka. Ma prima che vi arrivasse sentì delle voci dal cielo che lo assicuravano che Sita era viva, che stava bene, e che era assorta nella speranza del ritorno di Rama. Hanuman si rinfrancò e fuggì dalla città in fiamme. Corse sulla spiaggia e ancora una volta spiccò il prodigioso sal­to.
Sollevando onde altissime e causando quasi una tempesta, Hanuman ripassò sull'oceano. Dopo aver salutato e ringraziato Mainaka, vide la montagna Mahendra. Gridava e ruggiva dalla gioia, quasi non potesse controllare il proprio entusiasmo. Voleva incoraggiare e anticipare la sua gioia ai compagni che lo stavano aspettando. Jambavan fu il primo a sen­tirlo.
"Ascoltate. Queste sono le grida di gioia di Hanuman. Sentite che fervore esprime la sua voce, e che felicità! Forse l'ha ritrovata. Coraggio, amici: forse porta buone notizie."
Dopo essere atterrato sulla montagna, Hanuman fu circondato dai fe­stanti Vanara che gli chiesero cosa fosse successo. Hanuman raccontò tutto per filo e per segno. Ma il principe Angada voleva ascoltare di nuo­vo tutta la storia e gli chiese di raccontarla ancora con più particolari.
"Valoroso amico," disse Angada. "Raccontaci ancora la storia dei tuoi successi a Lanka. E dacci altri particolari. Sono molto curioso di sentire questa gloriosa storia."
Tutti si sedettero a terra e ascoltarono ancora la storia; con tutti i particolari. Terminato il racconto, Angada era eccitato.
"Ma perché aspettare?" disse alzandosi in piedi e gonfiando i musco­li. "Perché tornare a Kiskindha e muovere tutti i nostri eserciti mentre Sita continua a soffrire? Possiamo andare noi a Lanka, possiamo noi stessi da soli distruggere Ravana con tutta la sua razza malvagia e ripor­tare Sita da Rama. Perché no?"
Qualcuno lanciò grida di entusiasmo. Molti erano dell'opinione di muoversi subito e di attaccare i nemici. Ma il saggio Jambavan freddò la loro impulsività e consigliò di tornare a Kiskindha. Alla fine anche An­gada riconobbe che quella era la cosa migliore da farsi e ripartirono.
In pochi giorni, camminando speditamente, arrivarono nel loro ter­ritorio. Non lontana c'era una foresta di proprietà privata di Sugriva, do­ve nessuno era mai potuto entrare. Fuori c'erano numerose guardie, co­mandate dallo zio di Sugriva di nome Dadhimukha. Angada, pieno di en­tusiasmo per il successo della missione, voleva festeggiare gozzoviglian­do con l'ottimo miele che lì abbondava. Sicuro che non sarebbe stato pu­nito, il giovane Angada autorizzò i suoi Vanara ad entrare anche con la forza per prendere il miele. Ghiotti di dolci e trasportati da una gioia in­tensa per il ritrovamento di Sita, i Vanara invasero Madhuvana, senza curarsi né di Dadhimukha né dei suoi guardiani. Dadhimukha credette di dover impedire ciò che credeva una grave insubordinazione e, dopo aver­li inutilmente minacciati, cercò di usare la forza. Ma l'entusiasmo dei Vanara di Angada era incontenibile e furono malamente sconfitti e co­stretti alla fuga.
Dadhimukha fuggì a Kiskindha e raccontò a Sugriva l'accaduto. Su­griva non si fece prendere dalla collera.
"Questo comportamento di Angada," rifletté, "e degli altri non è normale. Sanno quanto quella foresta mi sia cara, e se l'hanno violata senza nessuna paura significa che sono stati trasportati da una grande gioia, che vogliono festeggiare qualcosa di grande. E poi sono arrivati in notevole ritardo e non mostrano alcun timore di una punizione. Forse ci portano buone notizie. Forse hanno ritrovato Sita. Falli venire qui subi­to."
Dadhimukha si precipitò a Madhuvana e chiese il perdono di Angada. Gli riferì il messaggio di Sugriva. Alla presenza di Rama, Hanuman rac­contò tutta la storia, compresa quella del corvo di Citrakuta per rassicu­rarlo che tutto corrispondesse alla verità. Poi gli consegnò il gioiello che Sita gli aveva affidato. Vedendo il gioiello che una volta aveva regalato a Sita e ascoltando quella storia così intima, Rama pianse. E volle ascolta­re di nuovo il messaggio che Sita gli aveva mandato. Hanuman ripeté tutto ancora una volta.


Yuddha Kanda

Rama sembrava tornato a nuova vita. Quando ebbe ascoltato di nuovo tutta la storia dalle labbra di Hanuman, sentì che qual­cosa era rinato nel suo cuore, come accade quando si ritrova una persona che è essenziale alla propria esistenza. Abbracciò il suo fedele devoto e lo ringraziò calorosamente. Tennero poi un consiglio militare e ascoltarono la descrizione delle forze difensive dei nemici. Rama e Sugriva dettero disposizioni per l'immediata partenza. Mentre si preparavano, i Vanara manifestavano la loro gioia e il loro ar­dore guerriero.
Nel frattempo, a Lanka, Ravana era preoccupato. Aveva visto cosa era stato in grado di fare Hanuman, e da solo. Sebbene la sua potenza personale e quella del suo esercito desse ampie garanzie, in cuor suo si sentiva preoccupato. Qualcosa di tutta quella storia lo angosciava. Non era come le altre battaglie che aveva intrapreso. C'era qualcosa di diverso che sfuggiva al suo controllo e alla sua comprensione. Chiamò a consi­glio tutti i generali e i principali ministri.
I Rakshasa lo videro preoccupato come mai lo avevano visto prima di battaglie che si erano prospettate ben più impegnative di quella. Secondo loro non si trattava, in fondo, che di due uomini e di un branco di scim­mie. Cercarono di rincuorarlo.
"Non ti vediamo sereno e fiducioso come sempre prima di un con­fronto," disse Prahasta. "Forse le minacce di quella scimmia ti hanno in­timorito? Ma di cosa ti preoccupi? Non ne hai ragione alcuna. Hai dimenticato la tua potenza militare e la nostra? Come puoi preoccuparti di due uomini e di qualche scimmia quando hai sconfitto i più grandi Deva dell'universo? Nessuno può sconfiggere noi quando siamo uniti sul cam­po di battaglia, e se anche ciò accadesse nessuno può sconfiggere te quando, sul tuo carro Pushpaka, ti scagli tra le file degli eserciti nemici. Maestà, tranquillizzati, possiamo distruggere qualsiasi nemico. Se quella scimmia tornerà con i suoi compagni e con Rama e Lakshmana, daremo loro battaglia e li stermineremo."
Prahasta e gli altri rassicurarono Ravana e gli infusero coraggio. Ma il virtuoso Vibhisana non era d'accordo su quelle scene di cieco fanatismo. "Cosa state dicendo voi tutti? Ravana, non ascoltare consigli in­sensati. Non hai visto quanti cattivi presagi sorgono ogni momento in­torno a te e a Lanka? Questi presagi annunciano la tua sconfitta. Hai già dimenticato quello che ha saputo fare a Lanka quella che loro chiamano una semplice scimmia? Cosa hanno potuto fare i tuoi valorosi generali per impedire quello scempio? E Rama e Lakshmana sarebbero due pic­coli uomini? E il massacro di quattordicimila potenti guerrieri? Anche quello dimenticato?
"La maniera migliore per fronteggiare un pericolo non è quello di sminuirne l'entità, ma semmai il contrario. Io sono sicuro che da una bat­taglia del genere usciremmo sconfitti e le nostre donne piangerebbero i loro morti. Ci aspetterebbero giorni di lutti.
"Sii saggio, fratello: restituisci Sita a Rama e salva così la tua vita e quella di milioni di persone che ti sono fedeli."
Un brusio di disapprovazione accompagnò le ultime parole di Vibhi­sana. Ravana non avrebbe voluto ascoltare quelle cose e l'entusiasmo che gli avevano suscitato gli incoraggiamenti dei suoi generali si spense. Si alzò di scatto e si ritirò nei suoi appartamenti privati. Passò una notte in­sonne.

Il giorno dopo, quando Ravana si ripresentò nella sala del consiglio, tra la generale disapprovazione Vibhisana tentò ancora di riportare Ra­vana alla ragione, ma Ravana si sentiva troppo attratto a Sita e non poté accettare le cose come realmente erano. Ignorò completamente Vibhisa­na e lo interruppe, rivolgendosi a Prahasta.
"Ho preso la mia decisione. Non rinuncerò a Sita. Io non posso di­mostrare paura davanti a un nemico così inconsistente. Io sono l'in­vincibile Ravana e mai ho conosciuto l'onta della sconfitta. Rama e il suo esercito di scimmie non mi fanno paura. Li combatteremo e li di­struggeremo. Disponi quindi le nostre truppe in difesa della città e falle preparare alla guerra."
Tutti gridarono dalla gioia e festeggiarono la decisione del loro re. In quel momento un rumore assordante fermò la discussione. Una guardia avvertì Ravana che il suo fratello più giovane Kumbhakarna si era appe­na svegliato da un lungo sonno e stava arrivando.
Kumbhakarna era il più forte Rakshasa che fosse mai esistito. Era gi­gantesco e il solo pensare a lui incuteva terrore. Quando entrò tutti lo sa­lutarono rispettosamente. Rama lo informò degli ultimi avvenimenti. Kumbhakarna non sembrò condividere l'atto del rapimento di Sita, tutta­via lo rassicurò che in caso di guerra gli avrebbe dato il suo appoggio. Ravana pensò che se Kumbhakarna avesse combattuto la vittoria sarebbe stata certa.
Mahaparsva, uno dei più famosi tra i generali, intervenne.
"Perché, visto che sei tanto attratto a quella donna, non la prendi con la forza? In fin dei conti sei il re qui, e tutto ciò che si trova su questo territorio è tuo di diritto."
Vibhisana ebbe un tremito di rabbia al vile suggerimento. Ravana sembrò riflettere per un po'.
"Sì, è giusto che lo sappiate," disse poi. "C'è una cosa che ho tenuta segreta per tanto tempo e che ora voglio raccontarvi. Non posso prendere una donna contro la sua volontà, altrimenti morirei. Un giorno violentai un'Apsara di nome Punjikasthala che corse da Brahma chiedendo vendet­ta. Allora Brahma s'infuriò e mi maledisse:
"Ravana, se ancora prenderai una donna contro la sua volontà, le tue teste esploderanno in cento pezzi."
"Cari amici, è solo per questa ragione che non ho ancora preso Sita con la forza. Se non avessi sopra di me quella terribile maledizione avrei già soddisfatto il più caro dei miei desideri."
Il virtuoso Vibhisana, a quel punto, tentò ancora di convincerlo a ri­portare Sita dal marito, ma tutti disapprovarono quel consiglio rite­nendolo un atto di codardia. Perdendo la pazienza, Ravana lo insultò e Vibhisana decise di lasciare Lanka e di andare ad aiutare Rama contro quelle forze malefiche. Anche se quelli contro cui avrebbe combattuto erano i suoi stessi parenti ed amici, Vibhisana pensò che la verità era più importante dei temporanei vincoli familiari. Sdegnato, lasciò la città. Su­bito dopo Ravana si pentì di aver trattato Vibhisana in quella maniera e lo mandò a cercare, ma non lo trovò più.
In meno di un'ora Vibhisana arrivò dove gli eserciti di Rama erano accampati e annunciò la sua venuta. Il suo arrivo causò malumore. Molti Vanara erano diffidenti, ma Hanuman lo riconobbe e ricordò come egli lo avesse difeso contro il parere di tutti gli altri. Vibhisana fu accettato come amico e alleato e portato di fronte a Rama. Si inchinò rispettosa­mente.
"Rama, io sono Vibhisana," disse, "il fratello minore di Ravana e Kumbhakarna. Nel mio cuore ho sempre disapprovato le attività de­moniache di mio fratello, anche nel caso del rapimento di Sita, ma egli non ha voluto ascoltare i miei consigli. Per l'ennesima volta oggi ho cer­cato di fargli capire quali sono le cose giuste da fare e mi ha insultato. Non voglio più stare dalla parte dei malvagi e degli oppressori, quindi vorrei aiutarti a vincere questa battaglia. Io conosco tutto su Ravana, sui suoi soldati e sulle fortificazioni di Lanka, e ti darei un prezioso contri­buto."
Nonostante le diffidenze di molti, Rama, che sapeva leggere nel cuore delle persone sincere, lo accettò come amico. Così il giusto Vibhisana si unì a Rama.

Nel frattempo le spie Rakshasa, che erano disseminate ovunque, in­formarono il re che l'esercito dei Vanara si stava avvicinando. Ravana allora convocò Shuka, uno dei suoi fidati ambasciatori e gli affidò una missione.
"I Vanara si stanno avvicinando. Non pensavo che fossero così temerari, eppure stanno arrivando. Cerchiamo di evitare la guerra. Porta ai loro capi un messaggio per tentare di scoraggiarli. E quando sarai fra di loro osserva bene il loro numero e la vera entità della loro forza. Tu sei esperto, sai riconoscere le capacità di un nemico. Vai, dunque, e torna presto."
Shuka viaggiò velocemente e arrivò dove i Vanara erano accampati. Rimase stupefatto nel vedere il loro numero: sembravano un oceano che si muoveva brulicante, dove ogni goccia era un guerriero determinato ad avere giustizia. Chiese del loro capo e fu condotto a Sugriva, a cui lesse il messaggio. Era così insolente e aggressivo che alcuni Vanara se la pre­sero con Shuka e lo malmenarono. Rama prontamente ordinò di fermar­si, ammonendoli che quello non era un comportamento civile. Lo fece liberare e gli permise di terminare di leggere il messaggio. Era inviata personalmente a Sugriva.
"... Non aiutare, quindi, Rama in questa impresa disperata, dove per­derai tutto, compresa la vita," terminò l'intimorito Shuka. "Schierati dal­la mia parte e ti coprirò di ricchezze e di gloria!"
"Avete sentito che viltà?" gridò Sugriva appena ebbe finito di ascolta­re il messaggio. "Ha paura di noi e cerca di convincerci ad abbandonare la missione."
Tutti scoppiarono con delle risate di scherno. Sugriva riprese: "Ascoltami bene, messaggero. Dì questo al tuo padrone. Il coraggio è una ricchezza che lui non ha e che quindi non mi può dare. Digli che presto arriveremo a Lanka e distruggeremo lui, la sua stirpe intera e la sua città. Noi non tradiremo Rama."
A Shuka non fu permesso di tornare subito a Lanka: i Vanara pensa­rono bene di liberarlo quando sarebbero stati più vicini all'isola.
Pochi giorni dopo arrivarono sulle rive dell'oceano. Rama osservò il vasto corpo d'acqua, un enorme e insormontabile mare che lo separava da Lanka. Come attraversare tale distanza? Un intero esercito, poi, come l'avrebbe attraversato? Sembrava un problema irrisolvibile. L'unica solu­zione era che l'oceano stesso li facesse passare.
"Io chiederò a Varuna di apparire di fronte a me," pensò Rama, "e poi gli chiederò il favore di lasciarci passare."
Rama raccolse dell'erba kusha e ne fece un cuscino. Sopra quell'erba santa si sedette in meditazione. Così stette interi giorni e notti, meditando e chiedendo a Varuna di apparire. Passarono diversi giorni, ma il Deva non appariva. Agitato al pensiero di Sita, il desiderio di rivederla e di li­berarla gli rendeva insopportabile quell'attesa inerte. Perse la calma e sentì la furia crescergli nel cuore.
"Se Varuna non appare, io distruggerò l'oceano con tutti i suoi abi­tanti!'
Estraendo dalla faretra enormi frecce, egli prese a scagliarle senza in­terruzioni, una dopo l'altra, con violenza inaudita, uccidendo una molti­tudine di pesci. Le acque si agitarono così tanto che l'oceano straripò in più punti e ci fu una terribile tempesta. Ovunque era caos. Ma Varuna ancora non si decideva ad apparire. E Rama prese la terribile arma pre­sieduta dal mantra a Brahma e la fissò sull'arco. Solo allora, vedendo prossima la sua distruzione, Varuna emerse dalle acque tempestose e si inginocchiò davanti a Rama con le mani giunte.
"Perdona la mia offesa verso di te, o Rama," disse in tono di preghie­ra. "Io vi lascerò passare senza alcun dubbio. Chiama Nala, il figlio di Visvakarma, e digli di costruire un ponte sopra le mie acque. Non preoc­cuparti. Io sorreggerò il vostro peso."
Gioiosamente i forti Vanara cominciarono a prendere degli enormi macigni, dei picchi di montagna, alberi, o qualsiasi altra cosa che potesse far volume nella costruzione del ponte, e dopo aver scritto il nome sacro di Rama su di esse, li gettarono nelle acque. E come per miracolo, nono­stante il peso, non affondarono. Ben presto, sotto l'esperta direzione di Nala, il ponte fu ultimato. Gioiosamente, i Vanara cominciarono la tra­versata.
Lanka fu avvistata. Rama ordinò che Shuka fosse rilasciato e gli disse di correre dal suo re a trasmettergli il messaggio e la loro determinazione di liberare Sita ad ogni costo. Shuka non si fece pregare. Corse da Rava­na e gli raccontò tutto.
"... Mio caro re," raccontò con voce trafelata, "inoltre non hai idea della loro potenza militare. Il loro numero è tale che non può essere ne­anche immaginato, e la loro forza fisica personale è straordinaria. Non hai speranze in questa battaglia. Restituisci Sita, per il bene di tutti."
Sorpreso e furente nell'ascoltare uno dei suoi più fedeli aiutanti tessere le lodi dei suoi nemici, Ravana descrisse, d'altra parte, l'immensa forza dei Rakshasa. Ma proprio mentre parlavano uno dei suoi generali gli por­tò la notizia che il nemico era giunto nell'isola.
Ravana mandò ancora Shuka, stavolta accompagnato da un altro am­basciatore di fiducia di nome Sharana, a spiare l'esercito avversario e a portargli notizie più dettagliate. Ma mentre cercavano di spiare protetti dal buio della notte, Vibhisana li scoprì e li catturò. Rama vide le due spie e sorrise:
"Siete venuti per spiarci? Potevate chiederlo," disse ironicamente. "Vi avremmo fatto vedere tutto noi stessi. Venite."
E li portò a fare un giro accurato del suo esercito. Poi li rilasciò. I due tornarono da Ravana e gli diedero la descrizione desiderata.
"Abbiamo visto la potenza militare dei nostri nemici. Ciò che possiamo dirti, a questo proposito, è solo questo: libera Sita, per il bene tuo e di tutto il popolo."
Shuka e Sharana erano due dei suoi ministri e la loro fedeltà era fuori discussione. Perciò si stupì di tali descrizioni e cominciò a temere che corrispondessero alla verità. Ravana decise di andare a controllare di persona. Insieme ad altri salì nervosamente le scale della sua torre più alta e appena si affacciò vide uno spettacolo impressionante. Non lonta­no dalle mura della città si stendeva a perdita d'occhio un immenso tap­peto vivente brulicante di Vanara. Era incredibile. Milioni e milioni di possenti nemici si dirigevano lentamente ma inesorabilmente verso la città. Sembrava un mare inarrestabile di guerrieri assetati di sangue e di giustizia! Ravana era impressionato. Si rivolse a Sharana.
"Fedele amico, chi sono i capi di questo immenso esercito? Parlami di loro e illustrami le loro capacità."
Sharana additò Hanuman, Sugriva, Angada, Nila, Nala, Jambavan, e descrisse dettagliatamente la loro forza personale. Poi parlò di. tutti gli altri capi, descrivendoli come guerrieri invincibili sul campo di battaglia, tutti dotati di terribile prodezza.
Irritato, Ravana espulse Shuka e Sharana dalla corte e mandò altri Rakshasa a spiare il nemico, nella speranza che riportassero notizie più ottimistiche. Ma anche questi altri tornarono dal loro re riferendogli le stesse cose, e anche loro furono istericamente cacciati via.
Turbato, Ravana ebbe paura di perdere la guerra e soprattutto temette di perdere Sita, che desiderava follemente. Decise di fare un altro tenta­tivo per conquistarla ed evitare la guerra.
C'era a Lanka un mago di nome Vidyujjihva che aveva capacità stra­ordinarie nel creare illusioni. Grazie ai suoi poteri, creò una testa perfet­tamente uguale a quella di Rama e andarono a portarla a Sita. Quando arrivarono, gliela gettarono ai piedi.
"Eccolo, il tuo caro consorte," gridò Ravana. "Io l'ho ucciso e de­capitato. Ora accettami come marito e goditi la vita."
Ma ottenne l'effetto contrario. Credendo Rama ucciso e decapitato, Sita scoppiò in un pianto convulso e pensò solo a morire. Ma la di­scussione durò poco, interrotta bruscamente. Un'urgenza richiedeva la sua presenza altrove. Ravana lasciò Sita piangente e disperata.
Nascosta dietro una siepe c'era Sarama, la moglie di Vibhisana. Lei sapeva quanto crudele Ravana fosse e conosceva molto bene il mago a cui si era rivolto.
"Casta signora, non piangere," disse in un sussurro. "Non disperarti. Rama non può essere sconfitto da nessuno. Non esiste chi può ucciderlo. Io so che in questo momento il suo esercito ha posto Lanka in assedio e presto sarà qui da te. Non perdere fiducia. Io conosco chi ha prodotto quell'illusione. C'è un mago malvagio che può fare quelle cose. Io cono­sco bene Vidyujjihva. Non preoccuparti, presto le tue sofferenze termi­neranno."
A quelle parole di Sarama, Sita si rincuorò e gliene fu grata. Arriva­rono le prime notizie della battaglia imminente.
Malyavan era uno dei Rakshasa più anziani e saggi ed era molto ri­spettato nella corte. Vedendo segni premonitori sempre peggiori, con­sigliò Ravana di restituire Sita e di far pace con Rama. Ravana ruggì come un leone.
"Che tipo di incantesimo ha lanciato questo essere insignificante sui miei collaboratori, anche i più stretti, perché tutti abbiano paura di lui? Avete dimenticato che io sono Ravana? Io sono Ravana! Ho sconfitto in combattimento i più grandi Deva; e ora dovrei aver paura di due uomini e di un pugno di scimmie? Siete diventati tutti dei vigliacchi? O l'età vi ha oscurato la vista e la ragione? Da soli io, i miei figli e Kumbhakarna possiamo distruggere l'universo intero. Nessuno potrà mai dire che Ra­vana ha avuto paura, che si è tirato indietro davanti a una sfida!"
Gridando, Ravana si ritirò nelle sue stanze.
La sera stessa gli eserciti si schierarono in posizione di combattimento. La guerra era oramai inevitabile. I Rakshasa e i Vanara si scru­tarono e si studiarono vicendevolmente, armati fino ai denti. Rama e i suoi collaboratori più intimi salirono sulla montagna Suvala ed ebbero una panoramica di Lanka. In questa attesa passò la notte.
Appena il sole sorse, Rama osservò attentamente la città e fu colpito da tanta bellezza. E lì in cima alla torre più alta, Rama scorse le dieci te­ste di Ravana. Era lui, in persona. Mentre lo guardavano, Sugriva non riuscì a contenere la furia e, senza consultare nessuno, spiccò un salto prodigioso e assalì Ravana dall'alto. Veloce come un'aquila, colpendolo con uno schiaffo poderoso, gli gettò a terra il diadema imperiale. Provo­cato, Ravana tentò di reagire, ma Sugriva, rimbalzando come una palla, gli sfuggì dalle mani e tornò da Rama.
Rama lo rimproverò severamente.
"Non essere così impulsivo. Se fosti caduto prigioniero avresti com­promesso il successo della nostra missione."
Ma era contento della dimostrazione di valore che Sugriva aveva da­to.
Rama pensò di fare un ultimo tentativo di evitare la guerra e risolvere tutto pacificamente. Mandò Angada come ambasciatore per cercare di convincere Ravana, ma fu tutto inutile. Trascinato dal proprio destino oramai scritto in chiare lettere, Ravana rifiutò ogni discussione. Cercò persino di far imprigionare Angada, che però riuscì a fuggire e a tornare da Rama.
Sri Rama Candra, nato sulla terra per distruggere i malvagi Rakshasa, capì che non c'era nient'altro da fare che assolvere il proprio compito. L'unica soluzione era la guerra. Diede quindi l'ordine di completare l'as­sedio di Lanka. All'interno della città c'era un gran fermento di prepara­tivi per la guerra.
E le ostilità cominciarono.

L'inizio della battaglia fu scoraggiante per i Rakshasa. Migliaia di soldati furono colpiti da armi varie; e teste e braccia e gambe e corpi mu­tilati in varie tremende maniere cominciarono ad ammassarsi sul campo di battaglia. Molti grandi guerrieri caddero: le frecce di Rama e La­kshmana sibilavano nell'aria come serpenti velenosi alati, prendendo mi­gliaia di vite. La maniera di combattere dei due fratelli era sovrumana.
Nessuno riusciva a vedere i loro movimenti, né le frecce: si vedevano solo quando arrivavano. La battaglia infuriava violentissima in ogni luo­go.
Grida di gioia, intanto, si levavano da un lato del campo di battaglia: Angada aveva sconfitto Indrajit, che era stato costretto a ritirarsi. Ma lui rientrò da un'altra parte del campo di battaglia ed evitando di incontrare Angada attaccò direttamente Rama e Lakshmana.
Il figlio di Ravana era in possesso di un'arma particolare chiamata naga-pasa, che dalle frecce produceva serpenti che legavano o uccide­vano coloro che ne erano colpiti. Con grande destrezza Indrajit scagliò l'arma micidiale e, gravemente feriti, Rama e Lakshmana caddero sul ter­reno, immobili: sembravano morti. Quando i Vanara videro le loro con­dizioni, si disperarono e cercarono di farli tornare ai loro sensi. Ci fu un certo tumulto fra i Vanara, che si credettero senza una guida e non sa­pevano più da chi ricevere gli ordini. La battaglia diventò caotica. In­drajit invece tornò dal padre e gli dette la buona notizia. Ravana pro­ruppe in un grido di vittoria.
"Finalmente stiamo tornando in noi. Quegli uomini non possono resi­stere sul campo di battaglia contro i nostri migliori guerrieri. Guardie, ordinate alle donne che vigilano su Sita di condurla sul campo e di mo­strarle le condizioni di Rama."
Condotta sul carro Pushpaka, Sita vide il campo di battaglia, dove migliaia di persone stavano rischiando la vita per lei. C'era un polverone fitto, e lo spettacolo della morte era spaventoso. Vide il marito disteso sul terreno e pianse disperatamente, credendolo morto. Ma poi si calmò.
"I saggi della foresta mi hanno predetto," pensò, "che io non sarò mai vedova e che sarei diventata madre. Le predizioni di quei santi non pos­sono essere false. Rama non può essere morto. Forse è ferito, o forse è svenuto."
E proprio mentre era assorta in quei pensieri, Trijata le si avvicinò. "Sita, non hai ragione di angustiarti," le bisbigliò all'orecchio. "L'e­nergia divina, la sua misericordia e benevolenza, è dalla tua parte. La ret­titudine è la tua arma e non può mai fallire, mai essere sconfitta. Presto sarai libera da questa ingiusta prigionia."
Sita venne ricondotta indietro.
Faticosamente, Rama mosse un braccio. Poi l'altro. I Vanara grida­rono dalla gioia. Non era morto. Gradualmente riprese coscienza e si al­zò. Vide Lakshmana disteso sul terreno. Non riuscendo a farlo riavere ebbe paura di averlo perduto. In quella situazione di timore Garuda, l'a­quila che eternamente trasporta Vishnu e che è nemico dei serpenti, ap­parve e mise in fuga i naga-pasa. Lakshmana gradualmente tornò alla coscienza. Vedendo Rama e Lakshmana liberi dall'arma del terribile fi­glio di Ravana, i Vanara produssero grida di gioia ancora più forti, che vennero udite dai Rakshasa. Tutti tornarono a combattere con inconteni­bile entusiasmo.
La battaglia riprese. I rumori erano assordanti, il campo di battaglia un immenso cimitero. Avvertito che i suoi nemici si erano in qualche modo liberati dall'influenza del naga-pasa, Ravana mandò contro di loro un potente generale. Costui si chiamava Dhumraksha, e mai aveva cono­sciuto la sconfitta. Dopo un violentissimo combattimento fu ucciso da Hanuman.
Altri possenti Rakshasa, accompagnati dai loro battaglioni, furono mandati sul campo di battaglia, ma tutti seguirono la sorte di Dhum­raksha: Vajradamshtra fu ucciso da Angada, Akampana da Hanuman. Anche il grande e famoso Prahasta, il più stretto collaboratore di Ravana e il suo amico più caro, fu ucciso da Nila.
La morte di Prahasta fu un duro colpo per Ravana. La sua furia di­vampò. E scese in persona sul campo di battaglia. Fu terrificante. Gettò lo scompiglio e il terrore nell'esercito avversario e uccise in pochi minuti migliaia di Vanara. Dapprima Lakshmana, poi Hanuman e via via altri lo affrontarono, ma dovettero ritirarsi. Poi si trovò faccia a faccia contro Rama. Dopo un breve ma intenso combattimento, Ravana dovette battere in ritirata e rifugiarsi a Lanka. Lì decise di porre fine alla guerra sve­gliando il grande Kumbhakarna.

Il fratello minore di Ravana era il mostro più spaventoso che il mon­do avesse mai conosciuto. Era enorme, possente, invulnerabile a qualsia­si arma, spietato in combattimento. Era davvero una fortuna per tutti che per la benedizione di Brahma spesso cadeva in un sonno profondo che durava mesi. Ravana era determinato a ricorrere al fratello per vincere quella guerra che si stava mettendo male.
Centinaia di soldati furono mandati nel gigantesco palazzo di Kum­bhakarna e cercarono di svegliarlo in tutte le maniere. Lo chiamarono gridando a squarciagola, batterono tamburi, suonarono strumenti direttamente nel suo orecchio, gli saltarono sopra, ma fu tutto inutile: non si svegliava. Quando respirava provocava un vento impetuoso che spostava chiunque ne fosse investito. Mille elefanti vennero fatti passare sul suo corpo gigantesco. Infine si mosse, leggermente. Stava svegliandosi. Si alzò e vide tutta quella gente intorno a lui e chiese cosa stesse succeden­do. Tutti furono contenti di essere riusciti a svegliarlo.
"Grande Kumbhakarna," gli dissero, "c'è una situazione di grande gravità che richiede il tuo intervento. Tuo fratello, il re, ci ha ordinato di venire a svegliarti. Ti aspetta. Vuole parlarti."
Dopo essersi sfamato con molta carne e sangue caldo, Kumbhakarna si recò dal fratello. Quando uscì dal palazzo e camminò all'aperto, l'effet­to che fece fu sconvolgente. Era così alto e maestoso che era visibile a chilometri di distanza. Fuori dalle mura i Vanara lo intravidero e rabbri­vidirono di terrore: tutti si chiesero chi fosse quel colosso. Rama lo chie­se a Vibhisana.
"Vibhisana, chi è quel gigantesco mostro? Lì, quello. Quando cam­mina fa tremare la terra e i nostri guerrieri, anche i più coraggiosi, ne sono rimasti impauriti."
Vibhisana lo guardò e sembrò visibilmente preoccupato.
"Quello è il mio fratello maggiore, Kumbhakarna. Se scenderà sul campo di battaglia dovremo prepararci a un scontro durissimo. Kumbha­karna è terribile quando combatte."
Incoraggiando i soldati e dando loro istruzioni, Rama si preparò allo  scontro.
E mentre i suoi nemici si preparavano, Kumbhakarna entrò nel pa­lazzo reale. Ravana lo rivide con gioia. Raccontò gli ultimi sviluppi della crisi. Solo allora Kumbhakarna seppe quanti bravi amici e soldati erano morti. Fin dall'inizio non aveva mai condiviso il comportamento del fratello; per cui tutto ciò confermò solo quanto lui e pochi altri avessero vi­sto giusto.
"Potente Kumbhakarna," disse Ravana, "dammi sollievo da questa grande ansietà. Il mio nemico si sta dimostrando più forte del previsto e molti dei nostri cari amici hanno già perso la vita. Persino Prahasta è morto. Tu puoi liberarmi dal peso di questa angoscia. Aiutami, ti prego." "Fratello mio," rispose Kumbhakarna rattristato da quelle notizie, "tu non hai voluto ascoltare i buoni consigli dei tuoi veri amici, primi fra cui Vibhisana, che hai cacciato via e che ora si trova tra le file dei tuoi nemi­ci. Queste sono le reazioni che ora devi raccogliere. Io non ho mai con­diviso il tuo comportamento al riguardo del rapimento di Sita, ma ti sei fatto sopraffare dalla lussuria e dai cattivi consiglieri. Comunque, ormai siamo andati troppo oltre per sperare in soluzioni diverse. Come ti dissi già in precedenza, io sono pronto a combattere e, se necessario, a rinun­ciare alla mia vita per te. Ma ricorda quello che ti ho già detto: ognuno raccoglie ciò che semina."
Ravana, ascoltato quello che voleva ascoltare, e cioè che suo fratello sarebbe sceso sul campo di battaglia, non dette peso ai rimproveri, sicuro della vittoria finale.
"Non sai quanto mi fai felice sentendoti parlare così," replicò. "Non è mai esistito qualcuno che potesse fronteggiarti. Vai dunque, e distruggi i nostri nemici".
Prima di andare Kumbhakarna rimproverò ancora Ravana per i suoi errori e Mahodara, uno dei generali, ribatté e riprese a sua volta Kum­bhakarna. Nel corso della discussione, Mahodara suggerì di mettere in atto uno stratagemma per conquistare Sita e porre fine alla guerra.
Kumbhakarna, sdegnato, rifiutò ogni trucco, ritenendoli indegni di un guerriero valoroso e decise di scendere subito sul campo di battaglia. Dopo aver riunito il suo esercito, il più grande Rakshasa mai esistito uscì dalle mura della città e si diresse dove la battaglia stava infuriando. Quando i Vanara videro l'orribile mostro avvicinarsi con gli occhi dilata­ti dalla furia che brillavano come tizzoni ardenti, fuggirono terrorizzati. Angada, vedendo le truppe messe in fuga da Kumbhakarna, recuperò i fuggitivi e li rincuorò. E, con un atto di supremo coraggio, si lanciò con­tro il nemico. Si scatenò una terrificante battaglia. Il Rakshasa causò su­bito una spaventosa carneficina e i Vanara superstiti fuggirono terroriz­zati. Non c'era verso di combattere contro quella montagna semovente, contro la quale ogni arma sembrava inefficace. Angada organizzò un al­tro battaglione formato dai soldati più valorosi e guidato dai migliori ge­nerali, e marciò ancora contro il grande Rakshasa.
Le ostilità divamparono più feroci che mai. E Kumbhakarna causò perdite gravissime al nemico. Combatteva con ogni mezzo a disposizione, con furia inaudita, divorando inarrestabilmente decine di grandi Va­nara alla volta. Così tanti se ne gettava in bocca che molti fuoriuscivano dalle narici o dalle orecchie. Attaccato da ogni parte da migliaia di nemi­ci arrabbiati, incurante delle numerose ferite causategli dalle lance, dalle spade, dalle mazze, dai macigni, e persino dai morsi e dai graffi, Kum­bhakarna continuò a distruggere intere divisioni di possenti Vanara, tutti forti come leoni e veloci come il vento. Sembrava invulnerabile, nessun'arma aveva effetto su di lui.
Sconfiggendo grandi generali come Hanuman, Kumbhakarna sem­brava la morte personificata: ovunque andava mieteva vittime. Oramai i più tentavano solo di fuggire appena si avvicinava. Coperto dalla testa ai piedi di armi, di sangue, di corpi di nemici vivi e morti, Kumbhakarna era impressionante a guardarsi.
Prendendo coraggio, il forte Angada spiccò un salto prodigioso e col­pì al petto il Rakshasa con il suo potente pugno. Per la prima volta Kum­bhakarna sembrò accusare il colpo. Ma subito si riebbe e colpì di ritorno. Il valoroso Vanara, proiettato lontano dalla violenza del colpo, svenne.
Sugriva, infuriato dalle perdite che il suo esercito stava subendo per colpa di quel mostro, intervenne e, nel mezzo del clamore della battaglia, ingaggiò un frenetico duello. Colpito da Kumbhakarna, perse i sensi.
Vedendo il re dei suoi nemici sul terreno svenuto, Kumbhakarna decise di portarlo prigioniero a Lanka. Così lo afferrò, lo caricò sulle spalle e si diresse verso la città. Nessuno tentò di ostacolarlo. Quando videro Su­griva catturato, i Vanara pensarono che ormai non fosse più possibile sperare nella vittoria finale. Lo scoraggiamento fu totale.
Quando lo videro entrare in città con il re dei Vanara prigioniero, Kumbhakarna venne festeggiato da tutti. In quel momento Sugriva ri­prese coscienza e si accorse di cosa era accaduto. Si vide trasportato dal gigantesco Rakshasa dentro la città circondato da migliaia di nemici fe­stanti che credevano ormai vinta la guerra. Immediatamente reagì, con violenza. Con le unghie strappò metà dell'orecchio del colosso e con i denti gli tranciò il naso. Kumbhakarna, gridando dal dolore, prese il Va­nara e lo gettò in terra. Rimbalzando prodigiosamente come una palla, Sugriva spiccò un salto e si riunì al suo esercito. Tutti festeggiarono l'in­concepibile impresa di Sugriva.
Fuori di sé dalla rabbia, ferito e sanguinante, Kumbhakarna afferrò una gigantesca mazza e tornò sul campo di battaglia. Durante il tragitto divorò con noncuranza migliaia di Vanara e ricominciò la sua spaventosa carneficina.
Vedendo che nessun altro era in grado di fronteggiarlo, Lakshmana decise di intervenire. Dal suo arco saettarono con una velocità in­concepibile innumerevoli frecce infuocate che penetrarono nel corpo dei Rakshasa come serpenti che penetrano nelle loro tane. Kumbhakarna sghignazzò con voce cavernosa, schernendo il giovane principe.
"Ho visto il tuo valore," gli disse, "ma non voglio combattere contro di te, io voglio combattere solo contro Rama in persona." Impetuosamente passò oltre Lakshmana e in lontananza vide Rama. Simili a moscerini che corrono e periscono in un grande fuoco, migliaia di Rakshasa affrontavano il figlio di Dasaratha. Vederlo combattere era uno spettacolo. Osservando i suoi soldati perire senza potersi neanche difendere, Kumbhakarna corse furiosamente verso di lui, ruggendo come un leone. A quel punto la battaglia divampò ancora di più, feroce e inde­scrivibilmente violenta. Mentre correva, desideroso di combattere contro Rama, Kumbhakarna fu fermato da Vibhisana.
"Fermati, Kumbhakarna. Combatti contro di me, invece che contro Rama," gli gridò.
Kumbhakarna si fermò e lo guardò, pieno di affetto fraterno.
"Tu, Vibhisana," gli disse, "sei sempre stato l'unico della nostra razza che mai ha deviato dal sentiero della giustizia. Mai ti sei lasciato traspor­tare dai desideri e dall'odio. Per questo tu non devi morire. Colpiscimi, dunque: io non reagirò contro di te. Ciò che sta accadendo in questa guerra è il logico risultato della stupidità di nostro fratello. Cosa posso farci io? Sono legato dai legami della famiglia e dall'affetto e non posso ritirarmi da questo combattimento. Io userò tutta la potenza di cui di­spongo per far emergere vittorioso Ravana. Ma so che alla fine saremo sconfitti e che tu rimarrai il reggente del nostro regno, perpetuando la li­nea del nobile Pulastya."
Vibhisana fu toccato da quelle sagge parole.
"Tante volte ho dato i miei buoni consigli a nostro fratello," gli disse, "ma lui non ha mai voluto ascoltarmi seriamente. E' colpa sua se ora ci troviamo come nemici su questo campo di battaglia. Io non posso colpir­ti, sei mio fratello."
Così dicendo, con gli occhi pieni di lacrime, osservando la terribile carneficina che si svolgeva tutt'intorno, si sedette sopra un macigno e appoggiò il mento sul pugno, assorto in chissà quali pensieri.
Con un ultimo sguardo al fratello, Kumbhakarna si scagliò impe­tuosamente contro Rama. I due si fronteggiarono. Rama gettò contro il nemico migliaia di frecce e Kumbhakarna reagì alla stessa maniera. Il duello fu violentissimo. Ma nel libro divino dove sono scritte le vite di ognuno, sulle pagine riguardanti il Rakshasa stavano scorrendo le ultime parole. Erano gli ultimi istanti della sua vita. Rama mirò una freccia pos­sente a1 braccio destro, staccandolo di netto. Ma il valoroso Kumbhakar­na continuò il combattimento come se nulla fosse successo. Rama gli scagliò contro una freccia simile che gli recise il braccio sinistro. Il brac­cio cadendo da quell'altezza schiacciò sotto il suo peso molti alberi, Vanara e Rakshasa. Ma lui continuò ad avanzare, così, senza braccia, schiacciando i nemici sotto i piedi. Freddamente, Rama gli tagliò anche le due gambe. Ma neanche in quella condizione, così mutilato, il glorioso Kumbhakarna si arrestava. Si trascinava in avanti con la bocca spalancata e divorò molti Vanara, schiacciandoli fra i denti. Procedette verso Rama.
Vedendo vicina la pericolosa bocca spalancata, il principe la riempì di frecce fiammeggianti. Sentendosi oramai prossimo alla vittoria, Rama pose sull'arco una grossa freccia e recitò con grande devozione il mantra di Indra: con rabbia e con grande forza la scagliò contro il collo del ne­mico. E la testa del glorioso Kumbhakarna si separò dal corpo e rimbalzò sul campo di battaglia, causando gravi perdite in entrambi gli eserciti. Rimbalzando diverse volte, piombò nel mare e sprofondò. Così il grande Kumbhakarna, che era come una spina nel fianco della gente pacifica, fu sconfitto e ucciso da Rama.
Quando la testa di Kumbhakarna sprofondò nel mare, il cielo si rasse­renò e un'atmosfera di pace si diffuse ovunque. Dall'alto si udirono le voci dei Deva e dei saggi che si congratularono con il vincitore e lo ri graziarono per quell'atto virtuoso. I Vanara tirarono un grande sospiro di sollievo. Quel mostro era diventato il loro incubo e ora che era stato uc­ciso la vittoria finale sembrava più vicina e più probabile.
Vedendo il corpo mutilato e privo di vita di Kumbhakarna, i Raks­hasa si ritirarono e sospesero la battaglia. La brutta notizia fu portata a palazzo: Ravana non riusciva a crederci. Il suo caro fratello, il grande, invincibile Kumbhakarna ucciso? Non riusciva a capacitarsene.
"Come hanno potuto ucciderlo? Dove hanno trovato la potenza ne­cessaria? Mio fratello non poteva essere sconfitto. Ha incontrato i più grandi Deva dell'universo e ha sempre vinto. Come è potuto succedere?"

Sconvolto dal dolore per la perdita del suo caro fratello, Ravana si lamentò pateticamente. Era il suo guerriero più valoroso. Per incorag­giarlo, i suoi figli decisero di uscire personalmente in combattimento, accompagnati da numerosi battaglioni. Ma ciò che sembrava impossibile continuava ad essere amara realtà. Il destino di chi è nel torto spesso si volge contro ogni logica. Angada uccise uno dei figli di Ravana, Naran­taka, e Hanuman Devantaka, suo fratello. Nila uccise il grande Mahodara e Rishabha Mahaparsva. Decimati e umiliati i Rakshasa, guidati dal fi­glio di Ravana, Atikaya, lanciarono un'ennesima offensiva. La battaglia divampò ancora, furiosamente; i combattimenti corpo a corpo erano spietati. Lakshmana affrontò il prode Atikaya e lo uccise.
Senza sosta, le notizie delle sconfitte e delle morti dei suoi cari conti­nuavano ad arrivare alle orecchie di Ravana, che si lamentava per la loro perdita. Temendo per la sicurezza di Lanka, Ravana in persona organizzò la difesa della città nei suoi punti nevralgici.
E Indrajit tornò sul campo di battaglia. Il modo in cui combatteva era mirabile. Poteva muoversi liberamente in cielo e in terra con grande velocità, poteva apparire e scomparire a suo piacimento quando e come vo­leva, e aveva ricevuto da Brahma armi micidiali. Avendo appena cele­brato un sacrificio che lo rendeva ancora più forte, Indrajit comparve sul terreno dove i combattimenti infuriavano. E cominciò la sua opera di distruzione. Massacrati a centinaia dalle terribili frecce del Rakshasa, i Va­nara cominciarono a cadere senza vita. Persino i soldati più forti non e­rano in grado di stare neanche un momento di fronte al figlio di Ravana. Indrajit aveva bisogno di guadagnare tempo: afferrò una freccia, la caricò con un mantra dedicato a Brahma e la scagliò contro i nemici. Si udì un'esplosione: migliaia di Vanara caddero svenuti sul terreno. Persino Rama e Lakshmana persero coscienza. Vittorioso e ottimista, Indrajit si ritirò per portare le buone notizie a suo padre.
Era una notte fresca. Spirava una leggera brezza e la luna era piena. Non sembrava di essere nel mezzo di una delle più terribili guerre mai combattute. Dopo l'esplosione dell'arma di Indrajit tutto si fece quieto e silenzioso. I Rakshasa si erano ritirati, intimoriti dal pensiero di poter es­sere vittime loro stessi di quell'arma. Calò il silenzio. La guerra, la vio­lenza: ci sono ragioni, giustificazioni per la loro esistenza? Quella volta si combatteva per una giusta causa, quella volta si combatteva per la pa­ce, per la giustizia, per dare una vita più serena a tanta gente che da trop­po tempo subiva le angherie di quei Rakshasa. Non c'era tempo per di­stendersi e godere del fresco venticello. Quella guerra doveva essere vinta.
I Vanara che non erano stati colpiti dall'arma si guardarono intorno, stupefatti. Quanti di loro giacevano sul terreno morti o privi di sensi? Tanti, troppi. La violenza di quell'arma era inaudita. Videro anche Rama e Lakshmana in terra, e si precipitarono in loro aiuto. Ma nessuno trovò il rimedio per rianimare i due fratelli. Vibhisana era tra coloro che non avevano subito danni. Corse sul luogo e vide ciò che era successo.
"Perché siete tristi e scoraggiati?" disse a voce alta. "Indrajit ha otte­nuto quell'arma da Brahma stesso: come potevano Rama e Lakshmana mancarle di rispetto e non farsi sopraffare? Non sono morti, guardateli bene, respirano ancora."
Hanuman era chino sui loro corpi e massaggiava le loro membra. "Saggio Vibhisana," chiese con voce triste, "come possiamo ora far riavere Rama e Lakshmana? E anche tutti questi cari compagni che sono caduti, feriti da questa terribile arma? Dicci: cosa possiamo fare?" "Dov'è Jambavan?" replicò Vibhisana. "E' il figlio di Brahma. Saprà sicuramente come neutralizzare quest'arma che appartiene a suo padre. Cercatelo, e pregate che sia ancora vivo."
Era notte, non si vedeva quasi nulla. Non era facile cercare una per­sona in mezzo ai milioni di corpi distesi sul terreno. Alla luce delle torce, Hanuman cercò con grande ardore. Il suo cuore era così triste nel vedere anche Sugriva, e Angada, e Nila, e Sharabha e molti altri compagni di­stesi in terra, sanguinanti e privi di coscienza. Dopo un po' trovarono Jambavan, anche lui gravemente ferito, simile ad un fuoco che sta per estinguersi. Vibhisana lo chiamò dolcemente.
"Venerabile signore, amico caro," supplicò. "Spero che a causa delle frecce del terribile lndrajit la tua vita non sia alla fine. Come ti senti?" "I miei occhi sono ottenebrati," rispose Jambavan con un filo di voce, "e non sento più le mie forze. E' stato terribile. Ma ditemi se Hanuman è ancora vivo. Se lui è ancora fra di noi ci sono ancora speranze di vittoria; ma se è morto, allora possiamo considerarci sconfitti."
E Jambavan chiese ripetutamente se Hanuman fosse ancora vivo. Umilmente Hanuman si avvicinò e lo chiamò, facendo sentire la sua voce. Jambavan sorrise e scosse la testa.
"Hanuman, valoroso figlio del Deva del vento, tu devi salvare il no­stro esercito e la vita di Rama e Lakshmana. L'arma di Brahma, lanciata da un guerriero del calibro di Indrajit, è incontrastabile. Tu solo, ora, puoi aiutarci. Vai sull'Himalaya e cerca le erbe medicinali che ora ti de­scriverò. Queste erbe hanno un forte potere curativo e possono far svani­re l'effetto dell'arma di Indrajit. Ma fai presto. Il nostro destino dipende solo da te."
Jambavan descrisse ad Hanuman la montagna e le erbe. In gran fretta Hanuman partì e attraversò ancora una volta l'oceano. Presto arrivò sulle montagne Himalaya.
Appena le erbe che regnavano su quelle montagne lo videro avvi­cinarsi si ritirarono dal suolo e scomparvero dalla sua vista. Non riu­scendo a trovarle, Hanuman si irritò e sradicò la montagna. E il figlio di Vayu portò la montagna Rishabha a Lanka. Con quelle erbe i Vanara fu­rono curati e le loro ferite si cicatrizzarono subito.
I Vanara passarono la notte a curare i feriti. Risollevati ed entusia­smati per lo scampato pericolo, la mattina seguente sferrarono un attacco veemente alle mura della città, e in più punti riuscirono a penetrare all'interno. La battaglia fu feroce: migliaia di corpi mutilati lastricarono il ter­reno. I Vanara entrarono nella città ed iniziarono l'opera di distruzione. II fuoco divampò ovunque, bruciando centinaia di case. Devastata dal fuo­co e dai numerosi e potenti Vanara, Lanka assunse un aspetto spettrale. Molti Rakshasa cominciarono a fuggire, tentando di salvarsi la vita.
Ravana, sempre più fuori di sé dalla frustrazione, mandò avanti i suoi più forti guerrieri, ma furono tutti sconfitti. Angada uccise Kampana e Prajangha, Dvivida Sonitaksha. Mainda uccise Yupaksha e Sugriva Kumbha. Dopo un feroce duello, Hanuman riuscì ad eliminare uno dei figli di Kumbhakarna, il poderoso Nikumbha. La battaglia continuò fero­ce e violenta. Trascinati dal destino ineluttabile, i Rakshasa erano pun­tualmente sconfitti.
Le ultime notizie che arrivarono a Ravana erano intollerabili. E chia­mò allora il figlio maggiore. Indrajit traeva gran parte della sua forza da malefici sacrifici neri che celebrava giornalmente. Dopo aver terminato una delle sue cerimonie, ricomparve sulla scena. Vedendolo, i Vanara furono terrorizzati e fuggirono. Rama guardò suo fratello.
"Non c'è nulla da fare. Fintanto che Indrajit è vivo non possiamo vincere questa guerra," gli disse. "Guarda: dopo aver fronteggiato guerrieri fortissimi, tutti fuggono quando Indrajit si mostra. Incute terrore a tutti. Dobbiamo trovare la maniera di sbarazzarcene subito."
E proprio mentre Rama parlava, in un colpo solo migliaia di Vanara caddero morti, e gli stessi fratelli furono feriti gravemente. Ordinarono una ritirata per cercare la maniera di porre fine alla continua minaccia che Indrajit rappresentava.
In realtà Indrajit, che ancora non aveva ultimato un diabolico sacrifi­cio che lo avrebbe reso praticamente invincibile, voleva guadagnare tempo. Per scoraggiare i suoi nemici creò un'immagine vivente di Sita e di fronte a tutti la decapitò. I Vanara, vedendo quella scena crudele e sentendo i terribili ruggiti di Indrajit, fuggirono da ogni parte. Hanuman riunì l'esercito in fuga e rilanciò l'offensiva. Ma Indrajit non c'era più: si era defilato, aveva rapidamente raggiunto il santuario di Nikumbhila e si preparava a procedere con le sue cerimonie.
La notizia della morte di Sita arrivò a Rama. Non poteva crederci. Si­ta uccisa da Indrajit? Rama credette che fosse arrivata la fine. Laksh­mana, fuori di sé, gettò un grido di rabbia.
"Oggi io distruggerò tutti i Rakshasa dell'universo!"
E preparò le sue armi. Ma Vibhisana, aiutando Rama a riaversi, lo fermò.
"Rama, Lakshmana, non cadete nel tranello," disse ai due fratelli. "Quella forma che è stata uccisa non era Sita. Ravana non permetterebbe mai una cosa simile. Indrajit ha escogitato questo trucco diabolico solo per guadagnare tempo. Sono sicuro che in questo momento si trova a Ni­kumbhila per terminare qualche sacrificio. Ascoltatemi: non dobbiamo lasciarglielo terminare. Se riusciamo ad interromperlo potremo uccider­lo. Manda Lakshmana con me, io gli mostrerò la strada per il santuario. Poniamo fine alla vita di questo essere malvagio."
Rinfrancato, Rama mandò Lakshmana a Nikumbhila, accompagnato da un'ingente forza. Guidati da Vibhisana che faceva strada, arrivarono rapidamente. E come sospettavano, lì videro le truppe di Indrajit che montavano la guardia. Vedendo il nemico avvicinarsi in un momento non propizio, tentarono di impegnarli in combattimento affinché il loro comandante potesse terminare il sacrificio. Con furia, Hanuman piombò tra le truppe dei Rakshasa e le decimò. Poi chiamò Indrajit a venire fuori e lo sfidò in un duello. E il figlio di Ravana uscì dal santuario. Lakshma­na lo vide per primo.
Sfidato da Lakshmana, Indrajit gli corse incontro impetuosamente. Il suo aspetto era terribile, la sua forza incomparabile. Un tempo il suo va­lore e la sua intelligenza gli avevano permesso di sconfiggere persino Indra, il re dei pianeti celesti. Quando vide Vibhisana a fianco di Laksh­mana, Indrajit lo rimproverò aspramente.
"Tu sei un traditore della tua razza. Non ti vergogni a farti vedere a fianco dei nostri nemici mentre uccidi i tuoi fratelli e amici? Vergognati! Sei solo un vile traditore che mira al trono del fratello."
"Tu sei un ragazzo senza giudizio né esperienza," replicò Vibhisana, "e la tua crudeltà non ha limiti. Mi sono schierato dalla parte di coloro che tu chiami nemici perché io non sono della tua stessa natura e non godo delle attività empie. Ho preso la loro parte per liberare il mondo dalla gente malvagia come te. Guardalo bene, questo mondo: oggi è il tuo ultimo giorno."
Pur cosciente di non aver terminato il sacrificio, Indrajit fissò La­kshmana e si lanciò contro di lui. Lo scontro fu feroce. Mentre La­kshmana era personalmente impegnato contro il nemico, Vibhisana prese il comando dei Vanara contro i soldati. Ben presto Indrajit perse il carro e l'auriga, e si ritrovò in una posizione svantaggiosa. Qualcuno gli portò velocemente un nuovo carro e un altro guidatore, e il duello riprese. E mentre Vibhisana e Hanuman massacravano le truppe dei Rakshasa, La­kshmana vide l'opportunità di porre fine all'esistenza di Indrajit. Un momento di disattenzione gli fu fatale: una freccia carica di mantra decapitò il prode figlio di Ravana.
Era fatta. Tutti tirarono un sospiro di sollievo. L'incubo era finito: I pochi superstiti tra i Rakshasa fuggirono, in preda al panico.

Tra i Vanara ci furono grandi festeggiamenti per la morte di Indrajit. Rama abbracciò affettuosamente Lakshmana e gli fece curare le numero­se ferite da Sushena.
Ravana di certo non gioiva. Indrajit era il suo figlio più caro e lo a­mava come niente altro. In un impeto di rabbia Ravana decise di uccide­re Sita, causa di tutte le sue disgrazie: ma il Rakshasa Suparsva lo con­vinse a rinunciare all'ignobile atto.
Nel frattempo la battaglia continuava. Rama e i Vanara continuavano nell'opera di distruzione delle truppe nemiche. Pur nel gran clamore della battaglia, a Lanka si udivano i pianti accorati delle Rakshasi che piangevano amaramente la perdita dei mariti, dei figli, dei padri e dei nipoti. Era una scena che spezzava il cuore. Ormai sembrava che non ci fossero più speranze. Ovunque regnava il caos, il dolore, la morte. Vedendo la situazione compromessa e le truppe decimate e terrorizzate, Ravana sce­se personalmente sul campo di battaglia. E l'effetto per i Vanara fu devastante: migliaia di teste, di braccia, di mani e di gambe saltavano in aria simultaneamente, la velocità e la precisione di Ravana in combattimento erano inconcepibili.
Da un'altra parte del campo di battaglia Sugriva combatteva valo­rosamente: uccise due famosi generali di nome Virupaksha e Mahodara. Infine Rama e Ravana si trovarono di fronte, l'uno contro l'altro, faccia a faccia.
Dopo uno scambio di parole furiose, lo storico duello cominciò, mol­to simile ai combattimenti tra Vishnu e i più grandi Asura. A un certo momento, vedendosi di fronte Lakshmana, colui che aveva ucciso suo figlio Indrajit, Ravana gli scagliò contro la lancia che aveva ricevuto in dono da Maya Danava. Colpito da quella lancia fatata, Lakshmana cadde sul terreno, come morto. Rama vide il fratello gravemente colpito, scese dal carro ed estrasse la lancia dal suo petto, incurante della pioggia di frecce che Ravana gli scagliava addosso. Furibondo, Rama guardò Su­griva che non era lontano.
"Amico Vanara," disse a denti stretti, "che tu mi sia testimone di que­sto voto: oggi questo mondo resterà senza Ravana o senza Rama. E sii certo che non sarò io a perdere. Oggi darò felicità a tutti distruggendo questo mostro malvagio."
Lakshmana era in condizioni precarie. Respirava a fatica. La ferita era molto profonda. Rama affidò il fratello all'esperto medico Sushena e tornò a combattere. Hanuman fu mandato nuovamente sull'Himalaya a prendere le erbe dalla montagna Mahodaya, ma non fu capace di ricono­scerle e compì di nuovo lo sforzo sovrumano di estirpare l'intera monta­gna e di portarla a Lanka. Quando Lakshmana fu guarito Hanuman ripor­tò la montagna al suo posto originale.
Nei pianeti superiori i Deva osservavano con apprensione. Rama ave­va già riportato delle vittorie importanti e c'erano buone speranze che tut­to andasse per il meglio. Ma ora a combattere c'era Ravana in persona. Conoscevano bene le capacità del Rakshasa. Indra si preoccupò e pensò di aiutarlo. Vedendo Rama impegnato in un feroce combattimento contro l'acerrimo nemico, il condottiero celestiale mandò il suo carro per aiutar­lo.
Matali, il guidatore del carro di guerra di Indra, si presentò di fronte a Rama e gli offrì il suo aiuto. Rama accettò gioiosamente e montò sul leggendario carro. E la battaglia continuò a lungo, nessuno dei due si ri­sparmiava e provarono colpi possenti: Rama colpiva Ravana, Ravana colpiva Rama, ma nessuno sembrava poter avere la meglio sull'altro. In una circostanza Ravana fu ferito da Rama e svenne sul proprio carro, e fu portato fuori dal campo di battaglia. Quando riprese i sensi, il Rakshasa rimproverò aspramente il suo auriga e tornò impetuosamente indietro.
Il combattimento riprese e si protrasse per molto tempo. Rama era af­faticato e preoccupato. Non riusciva ad avere la meglio. Sentiva af­fievolirsi il desiderio di combattere. Tra i saggi che dal cielo assistevano al duello c'era anche Agastya.
"Rama, recita costantemente la preghiera al Deva del sole conosciuta come aditya-hridaya," gli suggerì con voce eterea. "Grazie al potere di questo mantra sarai in grado di uccidere Ravana."
Incoraggiato dal suggerimento del famoso santo, Rama riprese il combattimento con vigore, mettendo il suo nemico in grave difficoltà. E presagi favorevoli furono visti tutt'intorno a lui e se ne scorsero di cattivi dalla parte di Ravana. Rama ne era certo: quei segni indicavano che la vittoria era vicina. Lo scontro tra i due guerrieri fu il più feroce di tutti, ma il momento fatale arrivò.
Scagliando contro i colli del nemico potenti frecce, Rama staccò una dopo l'altra le dieci teste di Ravana. Ma appena mozzate, quelle ricrescevano istantaneamente. Ravana sembrava invulnerabile. Così Rama deci­se di usare l'arma di Brahma. Recitando con somma devozione le miglio­ri preghiere a Brahma, il principe fissò una freccia nel suo arco e la sca­gliò contro il cuore del Rakshasa. Si udì un fragore assordante: la freccia colpì il bersaglio, il cuore del Rakshasa si spezzò in due. Ravana cadde sul terreno senza più vita.
E fu così che Rama, il figlio di Dasaratha, restituì la pace e la serenità a tutti uccidendo il più grande e crudele demone che esisteva.

Vedendo Ravana morto, i Rakshasa superstiti si arresero. Tutto si calmò: scese il silenzio.
Pian piano, con circospezione, dalle case e dai rifugi uscirono le pri­me donne, i bambini, gli anziani. I Vanara si ritirarono e li lasciarono u­scire. Ovunque si vedevano scene di dolore. Chi era china sul corpo di un figlio, chi di un marito o di un padre: la scena che si presentava alla vista era pietosa. Persino Vibhisana si lamentò amaramente per la perdita di così tanti cari. Rama lo confortò e lo invitò a presenziare i funerali. E man mano che la sera calava il campo di battaglia assumeva sempre più un aspetto spettrale. Particolarmente patetico fu il lamento di Mandodari sui corpi del marito e del figlio Indrajit.
Il giorno stesso dei funerali di Ravana, Rama che era stato il mag­giore artefice della vittoria incoronò Vibhisana re di Lanka. Tutti attendevano solo una cosa: di vedere Rama riunito a Sita.
"Sita ha sofferto per tanto tempo," disse poi Rama ad Hanuman, "ed è giusto che venga avvertita al più presto del successo della nostra missio­ne. Vai dunque da lei, e dille che ora Vibhisana è il re di Lanka e che egli desidera vederla."
Rama era serio, controllato, quasi se la gioia della vittoria non lo toc­casse. Tutti lo guardarono. C'era qualcosa di strano nelle sue parole. Perché aveva detto che Vibhisana voleva vederla? Hanuman corse da Sita. La trovò sconsolata, seduta sotto lo stesso albero nello stesso giardino. Quando lo vide il suo viso si illuminò. Gli occhi ansiosi interrogavano.
"Sono venuto a portarti le notizie degli ultimi avvenimenti," disse Hanuman sorridente. "La tua sofferenza è finita. Questa ingiusta prigio­nia è giunta a termine. Sei finalmente libera. Lanka è stata conquistata e Ravana è stato ucciso insieme ai suoi parenti e ai suoi generali. Ora è Vibhisana il Signore di Lanka e desidera vederti. Preparati, dunque. Ti accompagnerò da lui."
Tanta era la gioia che sentiva nel cuore che non poté proferire parola. Hanuman gettò uno sguardo alle guardiane che tentavano di nascondersi, terrorizzate.
"Principessa," disse Hanuman con cipiglio severo. "Se vuoi posso uc­cidere queste Rakshasi che per così tanto tempo ti hanno causato dolo­re."
"No, valoroso Hanuman," disse Sita con un dolce sorriso, "non far lo­ro del male. Non erano che delle schiave e agivano solo perché costrette dagli ordini di Ravana, che ha già ricevuto la giusta punizione. Non vo­glio altre vendette, non voglio altro sangue. Non far loro del male."
E concesse a tutte la libertà. Poi si preparò incontrare Rama.
Nel frattempo Vibhisana e Rama, aspettando l'arrivo di Sita, parla­vano fra loro.
"Finalmente è arrivato il momento in cui potrai rivedere la tua Sita," disse Vibhisana.
Ma Rama non rispondeva: con lo sguardo fisso, assorto in pensieri profondi, non rispondeva. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Sita montò sul palanchino per essere portata di fronte a Rama, e i Ra­kshasa tenevano alla larga la folla che voleva vederla. Rama sentì che fuori della porta c'era un certo clamore e si affacciò dalla finestra. Vide che tutti si erano allontanati per far passare il palanchino e la cosa non gli piacque. Ordinò che Sita venisse fatta venire a piedi di fronte a lui. Quando dissero a Sita del desiderio del marito, lei scese senza fare alcun commento. Vibhisana capì che c'era qualcosa di strano nella mente di Rama: far venire Sita a piedi facendola passare tra la folla era un segno di mancanza di rispetto nei suoi confronti. Janaki entrò nella grande sala che era stata di Ravana. Quando vide Rama non poté dire nulla. Poteva solo guardare quel viso così bello, tanto simile alla luna.
"Oggi noi festeggiamo questa importante vittoria," le disse Rama, "con la quale sei stata liberata. Così ho vendicato il mio onore. Tutto ciò è stato possibile grazie al valore di Hanuman, di Vibhisana, di Sugriva e di tutti gli altri. Sei libera, ora, puoi fare ciò che vuoi. Ma sappi che io non posso accettarti come moglie, perché ci sono dubbi sulla tua purez­za. Se ti accettassi, nel popolo crescerebbe il malcontento e non mi ri­spetterebbero più. Quando un re non è rispettato tutto va in rovina, e la gente soffre. Io voglio che tutti siano felici, invece. Fai ciò che vuoi, quindi, ma senza una prova della tua purezza io non posso accettarti."
Sita non credeva a ciò che ascoltava. Si chiese se mai le sue soffe­renze avrebbero avuto fine. Perché doveva subire un destino così cru­dele?
"Se vuoi puoi chiedere protezione a Lakshmana," continuò Rama, "o a Bharata, o a Vibhisana, o a Sugriva, o a chiunque altro. Ma io senza una prova chiara della tua purezza, non posso riprenderti con me."
Erano parole dure, quelle. Così dure che solo per poco non spez­zarono il cuore di Sita. Si sentì come colpita da un fulmine. Lacrime cal­de e copiose uscirono da quegli occhi così belli, così tanto simili ai petali del fiore di loto. Ci volle qualche minuto prima che Sita riuscisse a parla­re.
"Perché dici queste parole così crudeli?" chiese. "Non basta quello che ho sofferto finora? La mia purezza negli atti e nei pensieri è sempre rimasta intatta. Chi non sa che sono rimasta nella casa di Ravana perché costretta?"
Ma non c'era molto da discutere. Rama la guardava con occhi pieni d'amore ma fermo nei principi che erano il filo conduttore della sua esi­stenza. E Sita capì che doveva dare la prova della sua purezza. O mai più vedere Rama. Si rivolse a Lakshmana.
"Prepara una pira," gli chiese. "Io sono casta e pura e senza la minima macchia: entrerò in quelle fiamme. Una donna veramente casta non può essere toccata neanche dal fuoco. Se Agni mi risparmierà vorrà dire che sono sempre rimasta fedele a mio marito e che non ho mai pensato a nes­sun altro. Se invece morirò, quella sarà la prova della mia infedeltà."
Rama non disse nulla. Il suo volto era immobile. A malincuore, se­condo il desiderio di Sita, Lakshmana preparò una pira e vi appiccò il fuoco. Dopo aver offerto rispetti a suo marito e agli dei, Sita vi entrò con decisione. La folla gridò, creando un tumulto che scosse la città.
Mentre Sita era avvolta dalle fiamme, Rama sembrava di pietra; non si muoveva, non diceva niente, guardava il fuoco e pensava. E in quel momento, all'improvviso, si udirono delle voci celestiali: e i Deva con Brahma a capo apparvero davanti a tutti.
"O Rama," disse Brahma, "perché ti stai comportando come se voi foste comuni mortali? Tu sai che tutti noi siamo tuoi subordinati e che la tua essenza spirituale pervade la creazione intera. Non fare questa ingiu­stizia a Sita, che è la più casta delle donne."
Rama sembrava stupito da quelle parole.
"O creatore dell'universo," chiese Rama con umiltà, "io sono Rama, il figlio di Dasaratha, e per nascita sono un uomo. Ciò che mi stai dicendo mi sorprende. Allora chi sono veramente io? Qual è la mia vera identi­tà?"
"Tu sei l'incarnazione del Signore Supremo Narayana," rispose Bra­hma, "il Dio glorioso che tiene in mano il disco Sudarshana. Tu sei l'eterno e invincibile Signore Vishnu, che è eternamente trasportato da Ga­ruda. Tu appari in innumerevoli incarnazioni per proteggere i tuoi devoti e distruggere gli empi. E mediante esempio personale stabilisci gli eterni principi della religione e del comportamento umano."
Così Brahma svelò pubblicamente la vera identità di Rama. E appena Brahma ebbe terminata la sua preghiera, Agni emerse dalle fiamme con Sita accanto a sé.
"Davanti a tutti testimonio che Sita è pura e incontaminata," procla­mò il Deva del fuoco.
Rama prese gioiosamente Sita per la mano e le sorrise. Sita pianse per la felicità.
Fra i Deva c'era anche Shiva. Facendosi avanti, si rivolse al glorioso re.
"O Rama, grazie a te il crudele Ravana è stato ucciso e questo ha re­stituito la serenità a tutti i popoli. Qui, fra di noi, c'è tuo padre, Da­saratha, che stava solo aspettando il completamento del periodo pro­messo a Kaikeyi per accedere ai pianeti celesti. II tempo oggi è termi­nato. Dasaratha tornerà con noi nei pianeti delle gioie che ha ben me­ritato."
A quelle parole Rama guardò meglio tra i numerosi esseri celesti che erano di fronte a lui e scorse Dasaratha. Rama e suo fratello gli offrirono rispettosi omaggi.
"Mio caro figlio," gli disse Dasaratha, "grazie alla tua rettitudine ora io posso raggiungere i pianeti dove la vita è lunga e gioiosa. Chi ha un figlio come te è davvero fortunato."
Indra sorrideva a Rama.
"O Indra," gli chiese Rama. "Se uccidendo Ravana ti ho soddisfatto, per favore, restituisci la vita ai Vanara caduti sul campo di battaglia."
II re dei Deva acconsentì. In quel giorno di gioia suprema tutti fe­steggiarono e furono immensamente felici.

Rama aveva promesso al padre di restare in esilio per quattordici an­ni. Il tempo era quasi scaduto, e Rama si preparò a tornare ad Ayodhya. Salì sul carro Pushpaka, che era stato di Ravana e prima ancora di Kuve­ra. Prima della partenza, Vibhisana onorò i Vanara con ricchi doni. Poi partirono. Rama invitò a salire sul carro Sugriva, lo stesso Vibhisana che aveva manifestato il desiderio di accompagnarlo e altri Vanara. Poi la partenza, verso la tanto agognata Ayodhya.
Mentre il carro sorvolava i luoghi che avevano visto lo svolgersi dei diversi avvenimenti, Rama raccontava tutto a Sita: gli additò il campo di battaglia, il luogo dove Hanuman era atterrato, l'oceano attraversato con un balzo da Hanuman e via dicendo. Dopo qualche ora sorvolarono l'eremo di Bharadvaja, e Rama volle andare a salutare il grande saggio. Felice di rivederli dopo il successo della loro missione, il saggio be­nedisse Rama e tutti gli altri, che risalirono sul carro e ripartirono. Quando Ayodhya fu vicina, Rama chiese ad Hanuman di andare a­vanti per avvertire Bharata del loro arrivo. Il glorioso Vanara entrò nella città e incontrò Bharata.
"O principe, ti porto una buona notizia. Tuo fratello Rama, sua mo­glie Sita e il virtuoso Lakshmana stanno arrivando. Non sono molto lon­tani da qui e domani l'incontrerai."
Bharata non credeva alla meravigliosa notizia. Fuori di sé dalla gioia, riempì Hanuman di ricchezze e chiese notizie di Rama. Hanuman si se­dette e raccontò tutta la storia, della quale Bharata era completamente all'oscuro.
Lo stesso giorno la città venne pulita, profumata e preparata per il ri­torno di Rama, e dopo aver dato le necessarie disposizioni Bharata volle partire per andare ad incontrare Rama nell'accampamento. E quando i due fratelli si rividero, gioirono e si abbracciarono con trasporto.
Il giorno dopo Rama, che desiderava tornare nello stesso carro in compagnia di Bharata, chiese al carro celestiale Pushpaka di tornare da Kuvera. Dopo poche ore, nel momento esatto in cui terminarono i quat­tordici anni di esilio, Rama rientrò nella sua capitale.
Appena furono entrati nella sala reale, Bharata giunse le mani in se­gno di obbedienza e invitò Rama a sedersi sul trono reale. Dopo che fu seduto gli parlò di fronte a tutti.
"Tu mi affidasti questo regno per le ragioni che tutti conosciamo. Ma ti spetta di diritto. Ora che hai mantenuto la promessa fatta a nostro pa­dre passando quattordici anni della tua vita nella foresta, ti prego, riprendi la guida del regno."
Rama sorrise ed accettò. Avendo ritrovato il suo regno, Rama fu inco­ronato e sfilò in processione per le strade della città. I cittadini di Ayo­dhya, che lo rivedevano dopo tanto tempo, lo acclamarono con entusia­smo. Tutti sembrarono aver ritrovato nuova vita. Tutti furono contenti del ritorno di Rama.
Dopo pochi giorni Rama congedò i suoi cari amici Sugriva, Vibhi­sana, Hanuman e tutti gli altri, che a malincuore partirono.
Rama governò il regno di Ayodhya per undicimila anni e le glorie di quel periodo sono descritte nel Ramayana di Valmiki. La gente non co­nosceva malattie, sofferenze o miserie: tutti furono felici per tutta la vita. Nessuno mai ebbe da lamentarsi e il cibo fu sempre abbondante. E nean­che gli animali soffrirono sotto il regno di quel re santo. Durante il suo regno nessuno parlava di niente altro che delle glorie di Rama.

II Ramayana di Valmiki consiglia a coloro che desiderano trovare la prosperità nella vita di ascoltare e recitare i racconti delle gesta del Si­gnore con regolarità, in particolare quando narrate da persone sagge dal cuore completamente purificato.



Uttara Kanda

Passarono gli anni. Rama governava con giustizia e virtù, e tutti erano felici del suo governo. I tempi bui dell'esilio e del conflitto con i Rakshasa sembravano non essere mai accaduti. Sita e Rama vissero insieme felicemente.
Un giorno alcuni famosi saggi, tra i quali Agastya, andarono a trovare Rama per congratularsi con lui dell'importante vittoria ottenuta contro Ravana. Appena seppe del loro arrivo in città, Rama andò loro per­sonalmente incontro e li ricevette con grandi onori. Dopo aver celebrato il puja, , Rama si sedette per ascoltarli.
"La tua vittoria è stata una grande fortuna per tutti," disse Agastya. "Hai ucciso il mostro Ravana che era come una spina nel fianco del mondo. E grazie a te, oltre a Ravana, altri esseri malvagi sono morti: l'invincibile Kumbhakarna, Mahodara, Prahasta e molti altri."
Agastya guardò gli altri saggi e sorrise.
"Ma tutto ciò per noi non è stato sorprendente quanto il fatto che tu sia riuscito ad uccidere Indrajit, il figlio di Ravana. Lui era quello che ci preoccupava più di tutti: per lui avevamo dei dubbi circa la vittoria fina­le."
Rama era curioso di sapere come mai i saggi dessero tanta importanza a Indrajit. Chiese loro le ragioni.
"A Lanka c'erano grandi e potentissimi Rakshasa che possedevano poteri sovrannaturali," domandò. "Ma mi è sembrato di capire che a vo­stro avviso Indrajit avesse un'importanza e un potere particolare. Potete dirmi perché? E i Rakshasa, potete raccontarmi come questa stirpe di es­seri sia venuta ad esistere?"
"Sì," Agastya Muni replicò, "ti racconterò la storia di Ravana e della discendenza dei Rakshasa."

"Nell'età dell'oro viveva un grande santo di nome Pulastya, che era figlio di Brahma. Pulastya era un saggio esemplare e risiedeva in un in­cantevole eremo sulle pendici del monte Meru. In quel luogo pacifico e silenzioso vivevano molti altri eremiti, fra cui il re Trinavindu, che aveva rinunciato al trono ed era diventato un asceta.
"In quel luogo santo, dove la recitazione dei versi sacri dei Veda era il suono principale, le figlie degli eremiti giocavano fra di loro, suo­navano strumenti musicali, cantavano e danzavano. La ragazze facevano tutto ciò con innocenza, non certo con l'obiettivo di importunare nessu­no, ma di fatto il saggio Pulastya era disturbato dal rumore di quei giochi frivoli. Le meditazioni e le austerità erano rese talvolta difficili. Quando un giorno il frastuono si fece assordante, il saggio perse la pazienza e disse a voce alta, in modo che le ragazze potessero sentirlo:
"La prossima di voi sulla quale si poseranno i miei occhi resterà in­cinta."
"Le ragazze fuggirono spaventate, promettendo che mai più sarebbero tornate nei paraggi. Poco dopo, ignara dell'accaduto, passò di là la figlia di Trinavindu alla ricerca delle sue amiche. Non le trovò, ma mentre le cercava sentì il saggio Pulastya che recitava i versi dei Veda. Quelle vi­brazioni erano così attraenti che la ragazza si avvicinò all'eremo e incan­tata rimase ad ascoltare. Finché il saggio la vide. Per effetto della maledizione, chiari segni della gravidanza si manifestarono sul suo corpo. La ragazza non capiva cosa le stesse succedendo e, impaurita, corse dal pa­dre. Trinavindu vide che la figlia era incinta e, rassicurato sul fatto che non avesse avuto rapporti sessuali con nessun uomo, si chiese cosa potesse essere successo. Nella meditazione comprese tutto. Presa per mano sua figlia, andò dal venerabile Rishi Pulastya.
"Mia figlia genererà presto un figlio che è tuo. Accettala come sposa. Lei ti aiuterà nella tua vita."
"Pulastya accettò, contento di aver ottenuto una buona moglie. "Giacché questo figlio è nato a causa dell'attrazione della madre per l'ascolto dei sacri Veda," dichiarò il saggio, "il suo nome sarà Vishrava."
"Il bambino nacque. Man mano che cresceva si potevano notare in lui le stesse grandi qualità del padre. Quando Vishrava arrivò all'adolescen­za, il saggio Bharadvaja gli offrì sua figlia in moglie e Vishrava accettò. Quella ragazza si chiamava Devavarnini.
"Vishrava ebbe un figlio al quale impose il nome di Vaishravana. Egli sarebbe diventato Kuvera, il Deva delle ricchezze, il quarto guar­diano dell'universo."
"Dopo aver compiuto grandi austerità e dopo aver soddisfatto Bra­hma, Vaishravana fu benedetto. Divenne il Deva delle ricchezze e Bra­hma gli conferì, insieme a Yama, Indra e Varuna, la responsabilità di proteggere una parte del creato. Brahma gli donò anche un carro celestiale straordinariamente bello che si chiamava Pushpaka. Dopo aver ottenu­to ciò che desiderava, Vaishravana andò a trovare il padre.
"Brahma mi ha dato ciò che volevo," lo informò, "ma non mi ha as­segnato un posto dove vivere. Dimmi tu quindi dove posso andare ad abitare."
"C'è una città meravigliosa," rispose Vishrava dopo aver riflettuto, "che fu costruita da Visvakarma e dove i Rakshasa avevano vissuto. Ma molto tempo fa, per paura di Vishnu, la abbandonarono per fuggire a Ra­satala. La città si chiama Lanka, ed è la giusta dimora per te. Vai quindi a prenderne possesso."
"Kuvera andò a Lanka, ne prese possesso e regnò con grande rettitudine."
Rama fu colpito da un particolare nella narrazione di Agastya, e gli chiese spiegazioni.
"Tu hai detto che Vaishravana occupò Lanka, una città che era stata occupata dai Rakshasa. Ma a quel tempo Ravana non era ancora nato. Era esistita forse un'altra razza Rakshasa precedente a Ravana?"
Agastya si preparò a rispondere all'osservazione di Rama.

"All'inizio della creazione Brahma creò le acque dell'oceano e alcune entità viventi che le proteggessero. Ma questi esseri furono afflitti dalla fame e dalla sete. Non riuscendo più a tollerarle, andarono da Brahma. E il grande architetto dell'universo disse:
"Il vostro dovere è quello di proteggere queste acque." "Alcuni di coloro che avevano fame e sete dissero: "Noi le proteggeremo."
"E altri dissero: "Noi mangeremo." "E Brahma replicò:
"Chi di voi intendeva obbedire alle mie istruzioni e ha detto “noi le proteggeremo” diventeranno potenti Rakshasa, e chi di voi voleva cedere alla fame e ha detto “noi mangeremo” diventeranno Yaksha."
"Da allora iniziarono queste due differenti stirpi di esseri.
"I potenti capi dei Rakshasa erano Heti e Praheti. Quest'ultimo si riti­rò nella foresta per dedicare la sua vita alle pratiche ascetiche, mentre Heti volle trovare una brava moglie. Di propria iniziativa sposò Bhaya, la sorella di Kala, ed ebbero un figlio chiamato Vidyutkesha.
"Quando raggiunse l'adolescenza, Vidyutkesha sposò Salakantaka, la figlia di Sandhya. Quando la Rakshasi partorì il primo figlio, non lo vol­le e lo abbandonò in una foresta del monte Mandara. II bambino era lu­minoso come il sole, ma vedendosi abbandonato piangeva piano per la paura. In quel momento Shiva e Parvati passavano di là e sentirono il vagito di un bimbo. Così Parvati volle fermarsi e vedere chi fosse. Ve­dendo il neonato, Parvati sentì una profonda compassione per quel bambino abbandonato, e chiese al marito di aiutarlo. Così Shiva lo fece cre­scere immediatamente fino all'età della madre e lo rese immortale. Inol­tre gli donò una città incantata che poteva andare ovunque senza restri­zioni. Scorgendo nei loro cuori una particolare predisposizione verso le gioie della vita materiale, Parvati dette a tutte le Rakshasi il potere di partorire nel giorno stesso del concepimento e concesse che i loro figli sarebbero cresciuti subito fino all'età della madre. Il bambino nato da Vidyutkesha e Salakantaka si chiamò Sukesha.
"Quando il Gandharva Grahmani seppe che Sukesha era stato be­nedetto da Shiva, gli offrì sua figlia Devavati in sposa. Ed ebbero tre fi­gli: Malyavan, Sumali e Mali.
"Erano, questi, tre mostri malvagi che praticarono grandi austerità e causarono grandi sofferenze a chiunque incontrassero. Dopo molto tempo Brahma accordò loro le benedizioni che desideravano. I tre Rakshasa sapevano di essere invincibili e che potevano essere distrutti solo se a­vessero litigato fra loro. La benedizione che chiesero, quindi, fu quella di essere sempre pieni d'amore fraterno l'uno per l'altro. Brahma così li rese ancora più forti e li benedisse a godere di una lunga vita.
"Vittoriosi, cominciarono a viaggiare, uccidendo e saccheggiando. Un giorno si recarono da Visvakarma, l'architetto dei Deva, e gli chiese­ro di costruire una città proporzionata alla loro grandezza. Visvakarma rispose:
"Per volere di Indra ho costruito una città chiamata Lanka. Io penso che sia adatta alla vostra gloria. Andate a prenderne possesso."
"Così fecero.
"E nei pressi della città di Lanka viveva una Gandharvi di nome Narmada, la quale aveva tre figlie. Volontariamente le offrì in spose ai tre Rakshasa.
"Malyavan sposò Sundari ed ebbe i seguenti figli: Vajramusti, Vi­rupaksha, Dunmukha, Suptaghna, Yajnakopa, Matta e Unmatta. Ebbero anche una figlia di nome Anala.
"Sumali sposò Ketumati ed ebbe i seguenti figli: Prahasta, Akam­pana, Vikata, Kalikamukha, Dhumraksha, Danda, Suparsva, Samhradi, Praghasa e Bhasakarna. Ebbe anche le seguenti figlie: Raka, Puspotkata, Kaikasi e Kumbhinasi.
"Mali sposò Vasuda ed ebbe i seguenti figli: Anala, Anila, Ilara e Sampati. Tutti questi erano ministri di Vibhisana.
"Aiutati dai loro numerosi figli e nipoti, i tre fortissimi Rakshasa si inebriarono del loro potere e divennero ancora più crudeli. Quindi dichiararono guerra ai Deva, ai Naga e agli Yaksha, e molestarono i saggi impedendo loro i sacrifici. Sconfitti in battaglia, i Deva chiesero aiuto a Shiva ma egli, ricordando l'affetto per il loro padre, non se la sentì di uc­ciderli.
"Andate da Vishnu," disse ai Deva. "Sicuramente vi aiuterà."
"I Deva si recarono da Vishnu e ottennero il suo favore e la promessa di un aiuto.
"Andate sicuri," li rassicurò, "al momento giusto io interverrò."
"Nel frattempo i Rakshasa vennero a sapere che i Deva avevano chie­sto aiuto a Vishnu e ne furono fortemente contrariati. Per questo decisero di distruggere tutti i pianeti celesti con i loro abitanti. Seguiti da un gros­so esercito, lasciarono Lanka e si diressero verso i mondi superiori. Du­rante il viaggio scorsero cattivi presagi, ma erano troppo arroganti e sicu­ri della loro forza per preoccuparsi.
"Nel frattempo Vishnu era venuto a conoscere le intenzioni dei Ra­kshasa e intervenne. Trasportato da Garuda, il Signore li attaccò e li massacrò a migliaia: molti fuggirono. Anche Sumali fu sconfitto. Poi il coraggioso Mali attaccò il suo nemico, ma fu ucciso, decapitato dal Su­darshana-Chakra. Mali era il più giovane dei tre, ma era anche il più for­te. Vedendo Mali morto, gli altri Rakshasa si persero d'animo e fug­girono verso Lanka, inseguiti da Vishnu. Dopo molto tempo, gli spa­ventati Rakshasa decisero di abbandonare l'isola e di rifugiarsi a Rasa­tala.
"O Rama," disse Agastya, "devi sapere che quei Rakshasa erano mol­to più forti di Ravana."
"Ora conosci l'origine della stirpe dei Rakshasa," riprese Agastya do­po una breve interruzione. "Ora ti racconterò la storia dei Rakshasa che provengono dalla linea di Pulastya e come le due linee si congiunsero. Ascoltami attentamente.
"Passarono anni di tormento per Sumali che, terrorizzato al solo pen­siero di Vishnu, abitava in una città del pianeta Rasatala. In quel periodo Kuvera aveva preso possesso di Lanka.
"Un giorno Sumali, portando con sé la sua bellissima figlia, tornò su questo pianeta e prese a vagare senza meta. E gli capitò di vedere Kuvera che andava a trovare Vishrava, suo padre. Sumali, che non lo aveva mai visto prima di allora, rimase incantato dallo splendore di Kuvera e anche quando fu tornato a Rasatala non riusciva a dimenticare tutte quelle opu­lenze. Sumali, che voleva assicurare un futuro ai suoi discendenti, pen­sava a come ottenere la stessa ricchezza di Kuvera. Escogitò un piano.
"Sumali pensò di dare sua figlia Kaikasi in sposa a Vishrava, con la speranza che i figli nati da lei avrebbero avuto lo stesso potere di Kuvera e avrebbero risollevato le sorti della loro stirpe. Istruita su ciò che dove­va fare, Kaikasi andò nell'eremo di Vishrava e vi entrò proprio mentre il saggio era impegnato in alcuni sacrifici. Ignorando che il momento non era affatto propizio, si presentò al saggio. Vedendo la casta ragazza, Vi­shrava le chiese cosa desiderasse, ma lei non rispose.
"Capendo tutto da solo, disse:
"Io ti accetto come moglie, ma sappi che sei arrivata in un momento sfavorevole, e che quindi i nostri figli causeranno a tutti molta sof­ferenza."
"Kaikasi ebbe paura e disse: "Signore, non voglio figli empi." "E Vishrava rispose:
"C'è un preciso disegno divino oltre il quale nessuno può andare. Ma i primi tre figli saranno in accordo al carattere della tua famiglia, mentre il quarto sarà in accordo alla mia."
"Nel corso del tempo nacque il primo figlio, un terribile Rakshasa con dieci teste e venti braccia. Per questo motivo Vishrava chiamò il primogenito Dasagriva, che in seguito sarebbe stato conosciuto come Ravana. Il secondo figlio di Kaikasi fu Kumbhakarna, un altro terribile mostro. Il terzo fu una femmina e fu chiamata Surpanakha. Il quarto il virtuoso Vibhisana.
"Qualche anno dopo, mentre Kaikasi sbrigava alcune faccende nell'e­remo con i suoi quattro figli, Kuvera andò a trovare suo padre. Al suo arrivo tutto sembrò illuminarsi di splendore e di opulenza, sotto gli occhi stupiti dei ragazzi.
"Guarda, Dasagriva, le ricchezze del tuo fratellastro," disse Kaikasi. "Tu sai come i Rakshasa vivano in povertà e si nascondano perché hanno paura di essere uccisi da Vishnu. Non credi sia il tuo dovere di cercare opulenze simili? E non solo per te, ma anche per il benessere e la prospe­rità della tua razza."
"Dasagriva guardava Kuvera intensamente e provò una fortissima in­vidia. Il giorno stesso, prendendo con sé Kumbhakarna e Vibhisana, partì per Gokarna, deciso a ottenere i favori di Brahma. Aveva solo un pensie­ro fisso nella mente: diventare più potente di Kuvera.
"Kumbhakarna eseguì austerità insopportabili per chiunque, che dura­rono diecimila anni e così fece anche Vibhisana. Ravana non mangiò per tutti quegli anni e al termine di ogni millennio offriva al fuoco del sacrificio una delle sue teste. Alla fine, visto che Brahma non appariva, decise di offrire la sua ultima testa. Allora il glorioso Brahma comparve e lo fermò.
"Cosa vuoi da me?" chiese Brahma.
"Ho compiuto tutte queste austerità perché voglio l'immortalità," ri­spose il Rakshasa.
"Non posso darti l'immortalità. Chiedi qualcos'altro."
"Voglio che nessuno abbia il potere di uccidermi, né i Suparna, né i Naga," replicò allora Ravana, "né gli Yaksha, né i Daitya, né i Danava, né i Rakshasa e neanche i Deva..."
"Ravana non menzionò la razza umana perché pensava di essere troppo forte per essere sconfitto da un semplice uomo. Questa arroganza fu la causa della sua fine.
"Questo te lo posso accordare," dichiarò Brahma. "Inoltre riavrai le teste che hai tagliato durante questi anni e ti conferirò il potere di assu­mere qualsiasi forma a piacimento."
"Dasagriva si sentì soddisfatto. Poi Brahma andò da Vibhisana.,e gli chiese:
"Cosa vuoi da me?"
"Voglio che la mia mente sia sempre assorta in pensieri spirituali," ri­spose lui. "Inoltre desidero possedere l'arma suprema, il brahmastra." "Brahma fu così compiaciuto da Vibhisana che gli conferì la sua stessa durata di vita.
"Poi andò da Kumbhakarna per chiedergli cosa desiderasse, quando i Deva allarmati lo fermarono e gli dissero:
"Signore, Kumbhakarna è il mostro più potente e malvagio che sia mai esistito. Se tu gli conferisci altri poteri, sarà impossibile controllarlo. Sarebbe capace di divorare tutti gli esseri del creato."
"Allora Brahma chiamò sua moglie Sarasvati e la pregò di manife­starsi nella bocca di Kumbhakarna. Quindi Brahma chiese:
"Cosa desideri da me?"
"Confuso da Sarasvati, il Rakshasa rispose: "Voglio dormire per molto tempo."
"Così il benessere dell'universo fu protetto.
"Appena Sumali venne a sapere che il nipote aveva ottenuto be­nedizioni da Brahma, riprese coraggio e tornò sulla terra con tutti i Ra­kshasa. Insieme andarono da Ravana e si felicitarono con lui.
"Abbiamo saputo del successo ottenuto grazie alle tue austerità," gli dissero. "Ora utilizza la potenza che hai accumulato per riconquistare Lanka e guadagnare grandi ricchezze. Sii la nostra guida e governa su tutti noi."
"Riconquistare Lanka significava far guerra contro Kuvera. Dapprima Ravana sembrò titubante, considerato il vincolo di parentela che li univa, poi la sua natura malvagia e grossolana ebbe il sopravvento. Per prima cosa andò da suo padre, Vishrava, e gli chiese il permesso di riprendere Lanka per i Rakshasa.
"Vuoi ridare Lanka ai Rakshasa?" chiese Vishrava allarmato. "No, non farlo. È ingiusto ed empio. Ti proibisco di farlo."
"Ma Ravana insistette. Rifiutò di obbedire all'ordine del padre. Che lo maledisse.
"Giacché tu non vuoi obbedire a tuo padre, sappi che nei momenti di maggiore bisogno perderai il buon senso."
"Questa maledizione gli sarebbe stata fatale, perché Ravana, avendo perso la concezione del giusto e dello sbagliato, rapì Sita, commettendo il più grave errore della sua vita.
"Quindi Prahasta fu mandato come messaggero da Kuvera, il quale offrì di dividere l'isola con il fratellastro. Ma la convivenza sarebbe stata impossibile: ben lo sapeva Vishrava che gli consigliò di abbandonare la città e andare a vivere a Kailasa. Obbediente agli ordini del padre, Kuve­ra così fece.
"Ravana entrò trionfalmente a Lanka e fu incoronato re dei Rakshasa. "Dopo qualche tempo Ravana organizzò il matrimonio della sorella Surpanakha con Vidyujjihva, capo dei Danava. Poi andò a caccia nella foresta e lì incontrò Maya Danava, il figlio di Diti, con sua figlia. Era depresso, triste, sembrava infelice.
"Perché sei così triste? Cosa ti succede?" gli chiese.
"Mia moglie si chiama Hema," raccontò Maya Danava, "una stupen­da Apsara. Da lei ho avuto tre figli: questa ragazza di nome Mandodari, Mayavi e Dundubhi. Un giorno lei volle tornare nei pianeti superiori e mi abbandonò. Io l'amavo molto, e senza di lei non sono felice. Per que­sto sono triste. Inoltre ho un altro problema: mia figlia è in età da marito e non riesco a trovarne uno adatto. Vuoi prenderla tu come moglie?"
"Mandodari era una ragazza stupenda e Ravana accettò. In pochi giorni il matrimonio fu celebrato. In quel giorno Maya Danava gli regalò una lancia speciale, infallibile, con la quale in battaglia avrebbe potuto uccidere chiunque. Poi Ravana fece sposare Kumbhakarna con Vajrajva­la, nipote di Bali che a sua volta era nipote di Prahlada. Infine Vibhisana sposò Sarama, figlia del Gandharva Sailusha.
"E arrivò il primo figlio. Mandodari ebbe un maschio che chiamò Meghanada. Questo bambino in futuro sarebbe stato soprannominato In­drajit. Invece di piangere come tutti gli altri bambini, al momento della nascita egli ruggì come un leone, rivelando la sua straordinaria natura guerriera.
"Passò molto tempo. Un giorno, per effetto della benedizione di Bra­hma, Kumbhakarna fu preso da un sonno irresistibile e chiese al fratello di far costruire un palazzo dove avrebbe potuto dormire senza essere disturbato. Dopo che il palazzo fu ultimato, Kumbhakarna vi entrò e dormì per molti anni.
"In quel periodo Ravana viaggiò e combatté contro chiunque gli capi­tasse a tiro. Ovunque andava la scena era la stessa: morte, sac­cheggiamenti, desolazione, dolore. Essendo venuto a sapere di tutti que­sti misfatti, Kuvera intervenne e gli mandò un messaggio, invitandolo a non comportarsi più in quella maniera. Ravana si arrabbiò per l'impu­denza del fratello, uccise il messaggero e marciò contro Kuvera stesso. La battaglia fu terribile: alla fine Ravana vinse e si impossessò del mera­viglioso carro Pushpaka.
"Con quel prestigioso trofeo di vittoria, continuò a viaggiare; e visitò il luogo dove era nato Kartikeya."
"Un giorno i Rakshasa arrivarono alla collina Kailasa: lì inspiega­bilmente il carro Pushpaka si fermò e non fu possibile farlo ripartire. Ra­vana scese e cercò di capirne le ragioni. D'un tratto vide davanti a sé Nandi, l'assistente principale di Shiva, che aveva preso le fattezze di una scimmia. Capì che Pushpaka non voleva ripartire per rispetto al più grande dei Deva.
"Nandi guardò con severità il Rakshasa e disse:
"In questa collina vive il Signore Shiva in compagnia di sua moglie Parvati. Nessuno può passare di qui. Scegli un'altra strada. Neanche tu puoi trasgredire questa legge."
"Mentre Nandi parlava, Ravana scoppiò a ridere, trovando buffa la sua faccia di scimmia.
"Tu hai riso nel vedere la mia faccia di scimmia," riprese Nandi, "e mi hai così schernito. A causa di quest'offesa, sappi che la distruzione del tuo popolo avverrà per mano di una razza di scimmie."
"Incurante della maledizione, Ravana, considerandosi superiore a Shiva stesso, di colpo sollevò la collina Kailasa. Tutti tremarono dallo spavento e dovettero reggersi per non cadere. Persino Parvati dovette ag­grapparsi al collo del Signore per non cadere.
"Chiunque sia stato a causare questo disturbo," sentenziò adirata la dea, "lo maledico a essere distrutto da una donna."
"Shiva non sembrava disturbato dall'incidente; solenne e assorto in meditazione, non si mosse e non disse nulla. Ma pose il suo alluce sini­stro sul terreno. A causa di quell'alluce la pressione fu così forte e repen­tina che Ravana non riuscì più a sostenere il peso e la collina ricadde giù con fragore, imprigionando le sue braccia. E nonostante esercitasse tutta la sua forza non riuscì a liberarsi. Allora Ravana gridò con grande furia e quel grido riecheggiò per tutto l'universo, terrorizzando le entità viventi.
"Quando vide che i suoi tentativi erano inutili, capì chi fosse Shiva e cercò di propiziarselo, recitando molte preghiere in sua lode. Ravana ri­mase in quella dolorosa posizione per migliaia di anni. Ma alla fine Shi­va lo perdonò e lo liberò.
"Il tuo grido ha spaventato tutti i popoli dell'universo," gli disse. "Per questo da oggi sarai conosciuto col nome di Ravana e ti regalerò anche la mia spada personale, Candrahasa."

"Anche dopo quell'esperienza il Rakshasa non cambiò la sua mentali­tà crudele. Appena fu libero riprese a viaggiare e a compiere le stesse malefatte di sempre. Un giorno passava per una delle vette himalayane, quando vide una bellissima donna che stava compiendo delle austerità. Ne fu così attratto che non si preoccupò di pensare che lei fosse un'asceta e che quindi dovesse essere rispettata, ma decise di farla sua.
"Chi sei, e cosa fai in luoghi così inospitali per una ragazza così gio­vane e bella come te?" le disse.
"Mio padre si chiamava Kushadvaja," rispose lei, "ed era figlio di Brihaspati. Io sono nata come un'incarnazione dei Veda e per questo il mio nome è Vedavati. Mio padre non voleva darmi in sposa a nessun altro all'infuori di Vishnu e per anni ha tentato di ottenere il suo favore. Un giorno Sambu, il re dei Daitya, mi chiese in sposa e mio padre rifiutò. Per vendetta lui lo uccise. Ora sono orfana e sto compiendo queste ascesi al medesimo scopo, quello di ottenere Narayana come marito."
"Ravana discese dal carro. Un orgoglio smisurato riempiva il suo cuore: non si riteneva inferiore a nessuno.
"Oh bellissima ragazza, sappi che io sono Ravana, il potente re dei Rakshasa. Non c'è essere superiore a me in tutto l'universo. Diventa mia moglie; io sono superiore a Vishnu."
"Così dicendo l'afferrò per i capelli e la tirò a sé. Vedendosi ol­traggiata da quell'essere vile, Vedavati s'infuriò e trasformò la propria mano in una spada. Con un colpo netto tagliò i capelli che Ravana teneva nella mano e si separò da quella presenza così contaminante.
"Tu mi hai preso per i capelli," disse lei, per nulla pacificata, "e quin­di mi ritengo contaminata per tutta la vita. In questo stato io non potrò ottenere i favori di Vishnu. A cosa serve allora questo mio corpo? Perciò lo abbandonerò."
"Vedavati accese un fuoco. Poi si volse verso il Rakshasa.
"Io rinascerò ancora e la missione della mia vita sarà di distruggerti. E non nascerò dal ventre di una donna come una qualsiasi bambina."
"Vedavati rinacque su un fiore di loto. Non sospettando chi fosse quella bellissima bambina, Ravana stesso la prese e la portò a Lanka. Ma i suoi astrologi gli predissero che quella bambina sarebbe stata la causa della sua distruzione. Allora Ravana la fece gettare nell'oceano. Sospinta dalle onde la bambina giunse a riva.   
"A quel tempo il re Janaka stava facendo preparare l'arena sacrificale per il suo Asvamedha-yajna e mentre faceva arare il terreno vide la neonata in uno dei solchi. Stupito, la prese con sé e la adottò. Poiché era sta­ta trovata in un solco fu chiamata Sita.

"Ravana continuava a perpetrare le sue malvagità. Un giorno capitò nella radura di una foresta dove il potente re Marutta stava svolgendo un sacrificio, al quale partecipavano anche Yama, Indra, Varuna e Kuvera. Appena i quattro Deva lo videro avvicinarsi, si nascosero nei corpi di al­cuni animali. L'arrogante Rakshasa entrò nell'arena e cominciò a cantare le proprie glorie. Marutta voleva dargli una lezione ma non poté, essendo nel pieno svolgimento del sacrificio. Quando Ravana fu ripartito, i Deva uscirono dai loro nascondigli. Indra, che si era nascosto nel corpo di un pavone, conferì a tutti i pavoni il privilegio di aver dipinti sulla coda tan­ti occhi. E Yama benedisse i corvi, Varuna i cigni e Kuvera i camaleonti.
"Dopo aver riportato vittorie su tutti i re della terra, Ravana arrivò ad Ayodhya, e lì sfidò il re Anaranya, che sconfisse e ferì a morte. Prima di morire, il re pronunciò una maledizione:
"Nella mia dinastia nascerà un re chiamato Dasaratha. Suo figlio Ra­ma ti ucciderà."
"Un giorno Narada Muni, vedendo che il Rakshasa stava mietendo troppe vittime tra gli esseri umani, pensò di dirigerlo verso un comba­timento con i Deva.
"Oh grande Rakshasa," gli suggerì il saggio, "perché perdi il tuo tem­po combattendo contro questi uomini che non possono neanche lontana­mente competere con te? Dichiara guerra ai Deva. Il tuo gusto per il combattimento sarà così soddisfatto."
"Ravana si diresse con tutto il suo esercito contro Yamaraja, il figlio di Vivasvan, ma fu sconfitto. Nel momento in cui Yama stava per ucci­derlo, Brahma lo fermò e glielo impedì, ricordandogli che Ravana non avrebbe dovuto morire per mano di alcun Deva. Per rispetto a Brahma, Yamaraja si ritirò dal combattimento.
"Scampato al pericolo, per nulla intimidito dall'esperienza della scon­fitta, Ravana combatté contro i Naga e li sconfisse. Fece amicizia con i Nivata-kavacha e si scontrò con i Kalakeya, uccidendo per sbaglio il ma­rito di sua sorella Surpanakha. Poi Ravana incontrò Surabhi e le offrì ri­spettosi omaggi.
"Poi marciò contro Varuna. Dopo aver sconfitto i suoi figli, Ravana apprese che il Deva delle acque non era presente nella sua capitale. "Durante le sue scorribande, il terribile Rakshasa rapì molte donne. E tutte lo maledissero a perdere la vita a causa di una donna.

"In quella campagna militare passarono anni. Poi Ravana tornò a Lanka. Lì lo aspettava la sorella Surpanakha, profondamente addolorata per la perdita del marito. II fratello la consolò e la affidò alle cure di Khara, che risiedeva a Dandaka con quattordicimila potenti Rakshasa. Contento di aver sistemato anche questo problema, Ravana entrò nella foresta Nikumbhila con i suoi collaboratori più intimi. Lì trovò suo figlio Meghanada che stava svolgendo un sacrificio in compagnia di alcuni a­sceti.
"Figlio mio," disse, sorpreso di trovarlo lì. "Cosa stai facendo? Per­ché stai svolgendo quel sacrificio? Per chi è quell'offerta?"
"Meghanada non rispose.
"Tuo figlio ha fatto il voto del silenzio," gli rispose il saggio Ushana, "non può risponderti. Questo è un importante e complicato sacrificio che ha lo scopo di propiziare Indra e di ottenere le sue armi. Con quelle tuo figlio diventerà invincibile."
"Ravana divenne rosso di rabbia.
"Sacrifici ai Deva?" gridò. "A che serve fare sacrifici a chi è più de­bole? Cosa possiamo ottenere? Noi siamo più forti dei Deva. Mio figlio non ha bisogno di queste cose per diventare invincibile. Noi siamo già più forti di tutti."
"Così dicendo prese Meghanada e lo portò via con sé, senza lasciargli terminare quel sacrificio. Solo per questa ragione voi avete potuto scon­figgerlo.
"Lo stesso giorno Ravana seppe che un Rakshasa di nome Madhu a­veva rapito sua cugina Kumbhinasi. Deciso a vendicare l'onore della famiglia, inseguì Madhu. Dopo averlo raggiunto stava per ucciderlo, ma Kumbhinasi intercedette a suo favore e Ravana lo perdonò. Unirono i loro eserciti e decisero di andare a sfidare Indra. Quella notte l'enorme e­sercito si accampò a Kailasa. Agitato, il re dei Rakshasa non riusciva a dormire e passeggiò per la foresta. E vide una stupenda Apsara, Rambha, e non riuscì a controllare il desiderio sessuale. La chiamò.
"O bellissima fanciulla, dove stai andando a quest'ora di notte? Chi sei? La tua bellezza ha risvegliato in me il desiderio sessuale."
"Mi chiamo Rambha," rispose la fanciulla, "e sono un'Apsara. Sto andando da Nalakuvera, tuo nipote, il figlio di Kuvera. Come sai, le Ap­sara non hanno marito e quindi non avrei difficoltà a soddisfare i tuoi de­sideri, ma sono stata chiamata da Nalakuvera e in questo momento sono considerata sua moglie. Quindi ora non posso soddisfarti."
"Ravana guardò ancora quella stupenda fanciulla, che sembrava la bellezza personificata. Era di una dolcezza indicibile: non poteva ri­nunciare a lei. Insistentemente le chiese di giacere con lui, ma lei rifiutò, impaurita dalla prospettiva della maledizione del saggio.
"No," lo pregò Rambha, "il padre di colui che ora considero mio ma­rito è tuo fratello, perciò tu sei come un padre per me. Non posso giacere con mio padre. E non è propizio neanche per te."
"Ma a nulla valsero le parole e le preghiere di Rambha: Ravana non riusciva a controllare il desiderio e la prese con la forza. Quando ebbe soddisfatto i suoi sensi, Ravana la lasciò andare. Spaventata, lei corse da Nalakuvera e gli raccontò tutto. Il saggio perse la calma e pronunciò una maledizione:
"Se Ravana prenderà ancora una donna non consenziente, le sue teste si spezzeranno in sette parti."
"Venuto a conoscenza della maledizione, da quel giorno Ravana non tentò più di violentare nessuna donna. Solo per questo egli non tentò mai di prendere Sita con la forza.
"Dopo molto tempo giunsero ad Amaravati, la città di Indra e la capi­tale dei pianeti celesti. Quando i Deva videro arrivare lo sterminato eser­cito, corsero a chiedere aiuto a Vishnu.
"Non temete," rispose il Signore, "quando sarà arrivato il momento io distruggerò Ravana e tutta la sua stirpe di malvagi Rakshasa."
"La battaglia si accese. Sumali venne ucciso dall'ottavo Vasu, e il fi­glio di Indra venne sconfitto da Meghanada. Durò molti giorni. I Ra­kshasa erano potentissimi. Alla fine, dopo una feroce battaglia, anche In­dra fu sconfitto e fatto prigioniero da Meghanada: in quel frangente si avverò la maledizione di Gautama Muni. Vedendo la situazione critica, Brahma intervenne personalmente e Meghanada rilasciò Indra. Così Brahma pensò di ricompensare il figlio di Ravana per la sua obbedienza.
"Oggi tu hai conquistato Indra, e per questo sarai conosciuto come Indrajit. Chiedimi una benedizione: cosa desideri da me?"
"Voglio essere immune dalla morte fintanto che sono sul mio carro di guerra e fintanto che riesco a completare le mie preghiere giornaliere," chiese Indrajit dopo aver riflettuto.
"Brahma glielo concesse. Come ricordi, Lakshmana colpì Indrajit quando egli non era sul carro e in un giorno in cui non poté completare i suoi riti."
Rama ascoltava il racconto con grande attenzione e interesse. Poi gli venne in mente una domanda.
"Ho ascoltato questo racconto e sono sorpreso dal fatto che quasi nes­suno fu mai in grado di sopraffare Ravana. E' mai possibile," chiese, "che a quel tempo non esistessero re valorosi che potessero sconfigger­lo? Se ce ne fu qualcuno mi piacerebbe ascoltare le sue gesta."
Agastya riprese il racconto.
"Il re degli Haihaya si chiamava Kartavirya Arjuna ed era famoso per la sua forza fisica. Ravana aveva sentito parlare di questo re e, desidero­so come sempre di combattere, si recò a Mahismati, la sua capitale. Ap­pena arrivò chiese di incontrare il reggente. Gli ufficiali di palazzo lo in­formarono che era assente ma che poteva trovarlo al fiume Narmada. Ansioso di sfidarlo, Ravana si diresse velocemente verso il fiume Nar­mada e lo fece cercare. Nel frattempo si accampò e raccolse dei fiori per iniziare un sacrificio propiziatorio a Shiva.
"Più a valle, Kartavirya Arjuna stava facendo il bagno in compagnia delle sue donne. Per gioco volle mostrare ad alcune di loro la forza delle sue mille braccia, che aveva ottenuto grazie a una benedizione di Shiva. Si immerse nell'acqua e fermò il corso del fiume, che a monte straripò in più punti. Il fiume uscì dagli argini anche in prossimità dell'accampamento di Ravana e spazzò via i fiori dell'offerta. Stupito da ciò che era accaduto, Ravana mandò i suoi consiglieri a scoprirne le cause. I due fra­telli Shuka e Sharana videro il re degli Haihaya e compresero ciò che era successo. Ravana corse a sfidarlo e fu sconfitto. Fatto prigioniero, fu portato a Mahismati e Arjuna lo fece rinchiudere in una prigione inac­cessibile. Pulastya venne a conoscenza dell'accaduto e volle intercedere a favore del nipote. Così Ravana fu liberato e ripartì subito.
"Per nulla umiliato o scoraggiato da quell'esperienza, Ravana con­tinuò a perpetrare le più basse nefandezze. Ma il destino gli riservava u­n'altra amara esperienza.
"Un giorno arrivò a Kiskindha, la capitale dei Vanara, e sentì parlare di Vali e della sua forza. Desideroso di combattere anche contro di lui, chiese dove fosse. Ma anche Vali in quel momento era assente e Ravana si informò dove potesse trovarlo. Avuta l'informazione, corse sul posto. Vali era sulle rive dell'oceano, assorto nelle sue meditazioni giornaliere. Ma anche in quella posizione si accorse dell'arrivo di Ravana, che si av­vicinava minacciosamente. Appena gli fu sufficientemente vicino, Vali lo strinse saldamente sotto le ascelle e spiccò un prodigioso salto in cie­lo. Nonostante la sua straordinaria forza, Ravana non poteva neanche muoversi, imprigionato da quella stretta ferrea. Pienamente tranquillo, come se con sé non avesse nulla, Vali visitò tutti i tre mari. Ravana capì che Vali era straordinariamente potente e fece amicizia con lui."
Terminato il racconto delle gesta di Ravana, Rama pensò di porre al­tre domande, stavolta su Hanuman.
"Da ciò che ho capito, Ravana era molto potente, ma Hanuman gli era superiore. Perché quando Vali cacciò via Sugriva, Hanuman non si ribel­lò e non cercò di proteggere il suo caro amico?"

Il saggio Agastya raccontò:
"Una volta viveva un Rishi di nome Keshari e sua moglie si chiamava Anjana. Una volta lei era nella foresta a raccogliere della frutta e dei fio­ri, quando il Deva del vento la notò. Vedendola così bella e pura, Vayu se ne invaghì e penetrò in essa. Come risultato un figlio fu generato nel suo ventre, Hanuman.
"Fin dai primi giorni della sua vita era chiaro che il bimbo aveva ca­ratteristiche speciali. Era ancora neonato quando un giorno sua madre lo mise in terra per sbrigare delle faccende. Ma il bimbo aveva fame e pian­se disperatamente. La madre, troppo lontana, non lo sentì. Era l'alba, il sole stava sorgendo ed egli pensò che quello fosse un frutto dorato. Era così bello e colorato che pensò che dovesse anche essere molto buono. Decise di andarlo a prendere e di mangiarlo. Così spiccò un gran salto e si diresse verso il sole. Era un giorno di eclisse e Rahu si apprestava ad ingoiare l'astro lucente, quando vide Hanuman avvicinarsi a grande velo­cità. Spaventato da quell'inattesa presenza, Rahu corse a chiedere aiuto a Indra e gli riferì cosa stava accadendo. Il re dei Deva pensò che fosse co­sa saggia andare a vedere personalmente e, accompagnato da Rahu, si recò sul posto. Nel frattempo Hanuman si era avvicinato di molto al Sole e si apprestava ad inghiottirlo. Vivasvan, che predomina l'astro lucente, lo guardò e non lo bruciò: sapeva che Hanuman sarebbe stato necessario all'incarnazione di Vishnu che avrebbe eliminato Ravana. Ma Rahu, sen­za attendere Indra, vedendo Hanuman che si era avvicinato troppo, im­pulsivamente lo attaccò. Il neonato scambiò anche Rahu per un frutto e si precipitò verso di lui, a bocca spalancata. Gridando `Aiuto Indra!' Rahu fuggì terrorizzato. E il re dei pianeti celesti scagliò contro Hanuman la sua arma prediletta, il fulmine. Colpito duramente alla mascella, il picco­lo cadde su una montagna. E Vayu vide che suo figlio era stato colpito e corse sul posto. Lo trovò morto. Piangendo addolorato, prese il corpo in braccio e andò via. Si ritirò in una caverna e non fece più circolare l'aria in tutto l'universo.
"Ci fu un periodo di grande difficoltà, e tutti soffrivano e rischiavano di morire. 1 Deva andarono da Brahma per chiedergli aiuto e così Bra­hma, accompagnato da tutti gli altri, andò a cercare Vayu. Quando lo tro­varono furono messi al corrente delle ragioni del suo dolore.
"O re, conosciamo il motivo che ti rende così triste," disse Brahma. "Tuo figlio è stato ucciso ingiustamente. Io lo farò tornare in vita. Il suo nome sarà Hanuman, perché la sua mascella è stata rotta dal fulmine di Indra. Non essere più addolorato, ora, e riprendi a soffiare in tutti i mon­di."
"Il piccolo si risvegliò come dopo un sonno. Fu benedetto ad essere praticamente immune da ogni pericolo, persino dalle maledizioni dei saggi.
"Hanuman divenne estremamente potente. Quando fu cresciuto, la consapevolezza dei suoi poteri lo rese arrogante e dispettoso, e prese l'a­bitudine di scherzare e di prendersi gioco dei saggi della foresta, distur­bandoli nei loro sacrifici. Un giorno i venerabili asceti unirono la loro energia per fargli dimenticare la grandezza dei suoi poteri: li avrebbe po­tuti ricordare solo quando ne avrebbe avuto bisogno. In preda a una pro­fonda amnesia, Hanuman cominciò a comportarsi come un Vanara qual­siasi, inconsapevole della sua potenza. Per questo non difese Sugriva nella sua disputa contro Vali: credeva di non poterlo fronteggiare."

Dopo qualche giorno i saggi vollero ripartire. Rama, a cui piaceva sentirli parlare, si dispiacque molto.
"Fra poco celebrerò il sacrificio Rajasuya," li informò. "Spero che parteciperete anche voi."
I saggi risposero affermativamente e partirono.
Dopo la partenza dei Rishi, Rama congedò tutti gli amici che avevano voluto venire ad ascoltare quelle affascinanti storie, e anche loro par­tirono. I Vanara e i Rakshasa tornarono nei loro rispettivi regni. Prima della partenza, Bharata descrisse le glorie del governo di Rama osservan­te delle leggi divine.
Un giorno Rama vide il carro Pushpaka tornare verso di lui.
"Dopo aver sconfitto Ravana," disse il carro fatato, "tu mi hai manda­to dal mio padrone, Kuvera, ma lui ha detto:
"O Pushpaka, Rama ti ha conquistato sconfiggendo il re dei Raksha­sa. Sei di sua proprietà, ora. Servilo con fedeltà."
"Io vorrei restare qui con te."
 Rama lo accettò con gioia.

I giorni tristi sembravano passati. Tutto era gaiezza, gioia, anche la natura sembrava partecipare alla loro felicità. Un giorno in cui Rama era nei suoi meravigliosi giardini in compagnia di Sita, la vide partico­larmente felice e distesa. Aveva una bella notizia da dare al marito.
"Mia cara," la anticipò lui, "io vedo nel tuo corpo chiari segni. Tu stai aspettando un figlio, non è vero?"
"Sì, è vero. E ne sono immensamente felice. Avremo dei figli: non è meraviglioso?"
Rama sentì una gioia immensa nel cuore.
"Oh, Sita, non immagini quanto questo mi faccia felice. In questo giorno fortunato io vorrei donarti qualcosa. Cosa vorresti?"
"Sento un po' di nostalgia di quegli eremi silenziosi e meditativi. Mi piacerebbe molto tornare a visitarli," rispose lei con un sorriso.
"Ciò che vuoi. Puoi partire domani stesso. Lakshmana e alcuni bra­hmana ti accompagneranno."

Ma non era tutto finito. I giorni tenebrosi sembravano stessero ri­presentandosi. Rama aveva sentito varie voci, di critiche, sul suo conto. A causa di quelle, convocò una riunione con i suoi ministri. Fra le altre cose parlarono dell'immagine che un re deve avere di fronte al popolo.
"E' di grande importanza," disse Rama, "che il re non abbia macchie nel proprio carattere e nella propria vita privata, nel presente come nel passato. Cosa dice di me la gente? Mi amano e mi apprezzano ancora? Sono tutti felici sotto il mio regno? O vedono difetti in me? Vorrei sape­re se mi criticano per qualche ragione."
Bhadra, uno dei ministri più fidati, aveva fatto un sondaggio in inco­gnito per conoscere l'umore della gente.
"I cittadini ti amano, ti rispettano, e sono felici sotto il tuo regno. Ma qualcuno ha visto in te una macchia: che nonostante tua moglie Sita sia stata nella casa di un altro per lungo tempo, e che quindi la sua castità possa essere messa in dubbio, tu l'hai ripresa con te. Qualcuno dice che questo tuo comportamento potrebbe giustificare o almeno non scoraggia­re l'infedeltà delle loro mogli. In altre parole pensano che il tuo compor­tamento in questo caso non sia stato esemplare. Questo è ciò che dico­no."
A queste parole Rama si incupì. Per tutto il giorno fu triste e pensie­roso. Poi mandò a chiamare i suoi fratelli.
"Voi sapete cosa dice la gente di me. Parlano di questa macchia nel mio carattere esemplare, di questo mio passato nel quale ho ripreso mia moglie dopo che lei era stata per molti mesi nella casa di Ravana. Io so­no il re e devo essere di esempio per tutti, al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica. Dicono che sono troppo affezionato a lei e che un re trop­po attaccato non può dare benefici duraturi ai suoi sudditi. Io non posso permettere che queste critiche facciano presa nel popolo. Ho deciso, quindi, di esiliare Sita.
"Lakshmana, domani accompagnala all'eremo dì Valmiki. Lì sarà fe­lice e al sicuro."
Dette queste parole, Rama corse nei suoi appartamenti e pianse. Quando il giorno tornò e il sole cominciò a inondare la terra di Ko­shala con i suoi caldi raggi Lakshmana, col cuore indicibilmente addolo­rato, invitò Sita a prendere posto sul carro per andare a visitare l'eremo di Valmiki Muni. Sita salì sul carro e partirono. Nell'aria c'era qualcosa di strano, Sita non si sentiva felice e vedeva cattivi presagi tutt'intorno a sé. Ma Lakshmana la rassicurò che tutto andava bene, che non c'era alcun problema e lei, pur senza riuscirci, cercò di calmarsi. Presto arrivarono al Gange e lo attraversarono. Attraversato il fiume, Lakshmana diede a Sita la terribile notizia. Dopo che Lakshmana le aveva spiegato tutta la situa­zione, Sita si disperò e pianse a dirotto.
Giunsero in quello stato d'animo all'eremo e Lakshmana la affidò a Valmiki. Poi ripartì. Una tristezza infinita era nel suo cuore. Sapeva che il fratello avrebbe sofferto tanto quanto Sita. Il saggio fu d'accordo di of­frirle protezione e la fece accompagnare nell'ashrama delle donne eremi­te.
Quando fu dall'altra parte del fiume, Lakshmana si fermò a guardare l'eremo e vide Sita entrare nell'ashrama delle donne. Il fido Sumantra era con lui.
"Sumantra," disse Lakshmana, "guarda: Sita è entrata nell'ashrama. Non è strano questo suo destino? Lei è la donna più casta e santa che ci sia, eppure è stata esiliata dal marito. Il destino è stato crudele con lei. Cosa avrà fatto per meritarsi tanto dolore?"
"Non ti affliggere," replicò Sumantra, "perché a tutto c'è una spiega­zione e un motivo di essere. In realtà era stato previsto: io sapevo che sa­rebbe successo."
Lakshmana lo guardò con sorpresa e lo interrogò con gli occhi.
"Ora ti racconterò una storia che solo io e tuo padre conoscevamo," riprese Sumantra.

"Un giorno accompagnai il re Dasaratha a trovare il saggio Vasishtha. Era il periodo di chaturmasya e lo volle trascorrere con Vasishtha. Lì c'e­ra anche il grande Durvasa, con il quale passammo i quattro mesi. Dasa­ratha gli chiese:
"Che futuro avranno i miei figli? Saranno felici o dovranno soffrire?" "Durvasa rispose:
"Ho una storia da raccontarti. Ascoltala con attenzione. Un tempo ci fu una grande battaglia fra Deva e Asura, e questi ultimi furono sconfitti. Non sapendo a chi altri rivolgersi, chiesero protezione alla moglie di Brighu, che li fece nascondere. Ma Vishnu vide l'atto della donna e le lanciò il disco Sudarshana, decapitandola.
"Quando Brighu venne a conoscenza del fatto e di come era accaduto, non riuscì a controllare la rabbia e maledisse Vishnu in questi termini: "Un giorno anche tu sperimenterai il dolore della separazione dalla tua amata."
"Caro Dasaratha, Rama è Vishnu incarnato e in questa incarnazione subirà la potenza della maledizione di Brighu. Quando Rama avrà termi­nato la propria missione sulla Terra si riunirà a Sita, che è Lakshmi in­carnata, la sua compagna eterna."
"Fedele Lakshmana," concluse Sumantra, "queste furono le cose che Durvasa disse a tuo padre. Non ti addolorare. Tutto ciò è un piano divino preciso. Torniamo ad Ayodhya, ora."
Lakshmana sentì il dolore alleviato dal racconto di Sumantra. I due tornarono ad Ayodhya.

Rama passava molto tempo in compagnia di Lakshmana, l'unico che potesse alleviargli il dolore della separazione da Sita. Un giorno Rama raccontò la vecchia storia del re Nriga e dei brahmana che lo maledissero a vivere nel corpo di una lucertola per molti millenni.
Terminato il racconto, Lakshmana chiese di ascoltare qualche altra storia. Rama narrò quella del re Nimi.
"Nimi visse molti anni fa ed era il dodicesimo figlio di Ikshvaku. Un giorno decise di celebrare un grande sacrificio e considerò chi potesse essere un brahmana qualificato a dirigerlo. Pensò al famoso saggio Vasi­shtha, e andò a chiedergli l'approvazione.
"O re, dovresti attendere qualche mese," rispose Vasishtha. "Ora sto presiedendo il sacrificio di Indra e non posso venire da te. Ma sarei mol­to felice di dirigere il tuo sacrificio. Attendi un poco."
"Nimi dapprima assentì, poi ci ripensò. Non gli piaceva l'idea di aspettare. Perciò andò dal saggio Gautama e gli disse di dirigere lui il suo sacrificio. Gautama accettò di buon grado e i preparativi iniziarono. Poi cominciò il sacrificio stesso. Vasishtha venne a sapere che Nimi non lo aveva aspettato e si adirò, pensando che il re gli avesse mancato di rispetto. Furibondo, si precipitò nel luogo dove il sacrificio era in corso e appena vide il re gli gridò:
"Tu morirai presto!"
"Vistosi maledetto, Nimi maledisse Vasishtha allo stesso modo. Il saggio rimase stupito: non si aspettava la reazione del re. Considerando che nessuno dei due era riuscito a controllare la rabbia, Vasishtha si con­siderò colpevole e andò da Brahma.
"Venerabile Signore," disse Vasishtha, "Nimi mi ha maledetto a mo­rire. Oltre a essere un grande re, egli ha acquisito anche poteri ascetici e quindi la sua maledizione avrà sicuramente effetto. Ma vorrei chiederti: dopo la mia morte come posso assumere un altro corpo adatto al conti­nuamento delle mie ascesi?"
"Caro Vasishtha," rispose Brahma, "puoi entrare nell'energia se­minale di Mitra e di Varuna."
"A questo punto devi sapere che a quel tempo Mitra e Varuna erano molto amici e vivevano insieme. Un giorno la bellissima Urvashi andò a trovarli. Colpito da tanto splendore, Varuna le chiese il suo amore.
"Io vorrei venire da te," rispose la fanciulla che provava per Varuna un sentimento d'amore, "ma Mitra ha chiesto la mia compagnia prima di te e non posso, dopo aver accettato, rifiutarmi."
"Quando ti ho vista," replicò il deluso Varuna, "ho sentito un impulso sessuale così forte che ho perso il seme. Lo porrò in un'ampolla divina e ti aspetterò."
"O Varuna," disse lei, "il mio corpo appartiene a Mitra, ora, ma il mio cuore è tuo."
E Urvashi andò da Mitra. Ma presto venne a sapere del sentimento tra i due e si sentì offeso. La maledisse a cadere sulla Terra e a rimanerci per un certo tempo. Sulla Terra Urvashi sposò Pururava, il figlio di Budha. Da Pururava nacque Ayu e da Ayu Nahusha, che sostituì Indra nei piane­ti celesti quando questi fu stanco dopo la battaglia contro Vritra.
"Ma quando aveva visto Urvashi per la prima volta anche Mitra ave­va perso il seme e l'aveva messo nella stessa ampolla celeste. Dalla mi­stura nacquero due grandi saggi. Il primo fu Agastya, il secondo Vasi­shtha, che così riprese un corpo.
"Ti ho raccontato, quindi, cosa successe a Vasishtha dopo essere stato maledetto. Ora ti dirò cosa successe a Nimi. Poco tempo dopo Nimi mo­rì, ma i saggi non interruppero il sacrificio che stavano conducendo. Quando fu terminato, Brighu richiamò il re dai mondi dove era andato e gli dette la capacità di parlare. Tutti erano soddisfatti di come il sacrificio era stato organizzato e vollero aiutarlo.
"Dicci cosa vorresti essere e dove vorresti vivere. Noi esaudiremo il tuo desiderio."
"Voglio vivere nella forma di aria negli occhi di tutti gli esseri vi­venti," chiese Nimi.
"A quei tempi gli occhi degli uomini non battevano continuamente come succede oggigiorno. Essendo stato esaudito dai saggi, Nimi si tra­sformò in aria e le palpebre degli occhi presero a battere continuamente.
"Ottenuto questo, Nimi scomparve. I saggi considerarono che il regno era rimasto senza un re e Nimi non aveva avuto figli. Quindi pensarono di crearne uno. Sfregando il corpo morto del re fecero nascere un bimbo che fu chiamato Mithi, ma ebbe anche altri nomi, come Janaka e Vaide­ha, che significa nato da un corpo morto. Costui fu il padre di Sita."


Dopo la storia di Nimi e Vasishtha, Rama raccontò anche la storia di Yayati. In questa maniera il tempo passava piacevolmente.
Un giorno il saggio Cyavana arrivò ad Ayodhya e venne ricevuto con tutti gli onori.
"Siamo molto onorati dalla tua visita," disse Rama. "Una ragione precisa ti ha spinto a venirci a trovare? C'è qualcosa che possiamo fare per te? Siamo pronti a soddisfare qualsiasi tua richiesta."
"C'è un motivo alla mia visita," rispose Cyavana. "Un grosso proble­ma assilla me e altri eremiti. Tu puoi aiutarci."
Rama assentì, sorridendo, ben felice di poter fare qualcosa per gli uomini di virtù.
"Ti racconto una storia," riprese Cyavana.
"In Satya-yuga viveva un Daitya virtuoso che si chiamava Madhu. Grande devoto di Shiva, lo soddisfò così tanto con la sua devozione che Shiva gli donò una lancia terribile, inarrestabile in battaglia. Nessuno poteva sopravvivere quando questa era scagliata. Madhu chiese a Shiva che anche i suoi discendenti potessero beneficiare di quell'arma, ma Shiva disse che ciò non era possibile. Ma concesse l'uso al figlio. Madhu gene­rò il malvagio Lavana, che crebbe ben differente da suo padre. Il crudele Rakshasa ora sta terrorizzando tutto il mondo, specialmente gli eremiti delle foreste.
"Rama," concluse Cyavana, "sollevaci da questo assillo. Uccidi La­vana."
"Grande saggio," rispose Rama, "è preciso dovere di ogni re proteg­gere i saggi e gli indifesi. Non preoccuparti più. Considera il malvagio Rakshasa già morto. Ma dove posso trovarlo?"
"Abitualmente vive a Madhuvana. Lo troverai sicuramente lì." Rama si rivolse a Satrughna e gli affidò la missione.
"Vai a distruggere il Rakshasa. Ma non combattere contro di lui men­tre è in possesso della lancia. E dopo averlo ucciso fonda una città e go­vernala."
Satrughna partì per Madhuvana con un grande esercito.

Durante il tragitto si fermarono presso l'eremo di Valmiki per ripo­sarsi. Satrughna fu intrattenuto dal saggio con la recitazione di meravi­gliose storie dai Purana. Proprio quella notte Sita partorì due gemelli, che furono chiamati Kusha e Lava. Satrughna ne fu molto felice.
La mattina dopo Satrughna ripartì ed in pochi giorni arrivò a Mad­huvana. Sorpreso in un momento in cui non aveva la lancia di Shiva con sé, il Rakshasa fu sconfitto e ucciso da Satrughna. Lì il fratello minore di Rama fondò una meravigliosa città che venne poi chiamata Mathura.

Passarono dodici anni. Solidamente stabilita la città, Satrughna desi­derò tornare ad Ayodhya a trovare i fratelli.
Durante il viaggio si fermò ancora presso l'eremo di Valmiki che lo ricevette con affetto. Dopo aver pranzato Valmiki disse:
"Ho composto un poema che si chiama Ramayana. E' la storia di tuo fratello Rama e della sua vita. Vuoi ascoltarlo?"
Satrughna assentì con gioia. Accompagnandosi con strumenti musica­li, i discepoli di Valmiki cantarono il Ramayana. La poesia e la musica erano così belle, così dolci, che Satrughna desiderò che la storia non fi­nisse mai. E non c'erano manipolazioni o travisamenti: tutto era recitato esattamente come era successo nella realtà.
La notte Satrughna non poté dormire; quei suoni gli erano rimasti nel­la mente e non riusciva a dimenticarli. All'alba ripartì. Dopo pochi giorni arrivò ad Ayodhya.
Satrughna raccontò a Rama ciò che aveva fatto in quegli anni, dando­gli la notizia della nascita dei suoi figli. Poi gli chiese il permesso di non tornare a Mathura, ma di restare con lui ad Ayodhya. Rama gli ricordò i doveri della casta dei guerrieri e gli concesse di rimanere solo un po'. A malincuore dopo sette giorni Satrughna ripartì.
Nel regno di Rama la sofferenza era sconosciuta perché il re era ben attento a proteggere i cittadini dalle influenze della degradazione mate­rialistica. Proprio per questo un giorno punì un sudra di nome Samvuka che si impegnava in attività non consone alla sua classe. Nel momento in cui Rama dette quella punizione, i Deva apparvero e gli chiesero di ac­compagnarli da Agastya che stava completando un sacrificio durato do­dici anni.
Rama e i Deva andarono nell'eremo di Agastya che li ricevette con tutti gli onori. Agastya sapeva bene quanto gloriosamente Rama stesse governando il suo paese, e volle fargli dono di alcuni ornamenti per mo­strargli apprezzamento.
"Ti ringrazio per questi bellissimi ornamenti che vuoi donarmi," disse Rama, "ma tu sai che solo i brahmana possono accettare doni, e che gli kshatriya dovrebbero rifiutarli. Come posso accettare ciò che mi offri?"
"Ti spiegherò il motivo," disse Agastya, "per cui tu dovresti ac­cettarli. Ascolta questa storia. In Satya-yuga non esistevano re perché non ce n'era bisogno. Poi si presentò la necessità e il problema fu esposto a Brahma. Mentre ascoltava, Brahma starnutì e dal suo naso scaturì una persona. Costui fu chiamato Kshupa. Egli fu designato come primo re della terra, e ricevette lo spirito di Indra per il governo della terra, lo spi­rito di Varuna per il mantenimento del corpo, lo spirito di Kuvera per l'accumulo delle ricchezze e lo spirito di Yama per l'amministrazione del castigo. Nello spirito di Indra tu devi accettare questi doni."
Rama li prese con sé e li osservò attentamente.
"Questi ornamenti hanno qualcosa di speciale. Chi te li ha dati? O dove li hai trovati?" chiese.
"Tempo fa," raccontò Agastya, "entrai in una foresta dove non ero mai stato e volli visitarla. Lì praticai molte austerità. Una notte entrai in un eremo abbandonato e vi passai la notte. Quando il sole sorse, mi sve­gliai e mi accorsi che vicino a me c'era il corpo di un uomo morto, diste­so. Ero stupito: la sera prima non c'era. Lo guardai e vidi che aveva delle fattezze corporee molto attraenti. Mentre cercavo di capire cosa potesse essere successo e chi avesse messo quel cadavere lì dentro, vidi un essere celeste che proveniva dal cielo, ed era accompagnato da altri bellissimi personaggi che cantavano e danzavano. E mentre guardavo quel glorioso essere, lo vidi che prendeva a mangiare il corpo che quella mattina avevo trovato vicino a me. Mi stupii. Tutto ciò che lo circondava era di una bel­lezza e di una gloria evidenti: mi sembrò strano che si cibasse di un ca­davere.
"Perché mangi un cibo così abominevole?" gli chiesi. "Tu mi sembri una grande personalità; cosa ti induce a comportarti così?"
"Grande saggio," rispose lui con una voce soave, ma triste. "Il mio nome è Sveta e come premio per le mie ascesi riuscii ad andare a Bra­hma-Loka. Ma quando vi arrivai sentii che avevo fame e ne fui stupito, giacché sapevo bene che in quel pianeta la fame non esisteva. Così andai a chiedere spiegazioni a Brahma stesso.
"Hai fatto austerità," mi rispose lui, "ma non carità. Ed è questa la ra­gione per cui hai sentito i morsi della fame. Dovrai cibarti di carne uma­na per scontare questa mancanza. Un giorno incontrerai Agastya e dovrai fargli la carità. Questo ti permetterà di accedere definitivamente nel mio pianeta."
"Accetta questi ornamenti celestiali dalle mie mani," concluse Sveta, "e permettimi così di accedere al mondo di Brahma."
"Io accettai quegli ornamenti, che sono gli stessi che ti ho regalato." Agastya raccontò un'altra storia.
"Molto tempo fa, durante Satya-yuga, viveva un re chiamato Manu; che aveva un figlio di nome Ikshvaku. Quando Manu si ritirò nella fore­sta, Ikshvaku, con i suoi cento figli, governò il regno. I suoi figli erano tutti buoni e virtuosi, tranne il più giovane che si chiamava Danda, una persona dal carattere empio e crudele. Il giovane fondò un regno e la sua capitale fu la stupenda Madhumantra. II grande Shukra era il suo maestro e la sua guida spirituale.
"Un giorno Danda andò a trovare il guru nel suo eremo e lì vi trovò, sola, la sua stupenda figlia. Danda fu colpito da tanta bellezza e, nono­stante le sue resistenze, la prese con la forza. Poi tornò in città. Venuto a conoscenza del vile atto, Shukra pronunciò una terribile maledizione:
"Un giorno Indra devasterà il regno di Danda e nessuno degli abitanti si salverà."
"La maledizione si avverò e quel regno, una volta così florido, si tra­sformò in una terribile foresta piena di Rakshasa. Fu poi chiamata Dan­dakaranya, la foresta di Dandaka."

La notte, in quella foresta idilliaca, trascorse piacevolmente. La mat­tina seguente Rama tornò ad Ayodhya.
Qualche tempo dopo il re pensò di celebrare il sacrificio Rajasuya, ma i brahmana di corte gli consigliarono invece l'Asvamedha. Dopo aver ascoltato differenti storie sulle glorie di quel sacrificio, Rama decise di seguire il loro consiglio. I preparativi vennero celermente avviati.
E fu durante quel sacrificio che Valmiki Muni arrivò con tutti i suoi discepoli. Durante la cerimonia chiamò i suoi cari studenti Kusha e Lava. "Se Rama vi chiama," disse loro a voce bassa, "recitategli tutto il Ramayana, cominciando dal Bala Kanda. Ma all'inizio non ditegli che siete suoi figli: ditegli solo che siete miei discepoli."
A questo punto ci ritroviamo all'inizio della nostra narrazione, quando Rama chiese ai due giovani eremiti di narrargli la sua storia.
Per giorni e giorni Rama ascoltò quella storia meravigliosa, finché venne a sapere che i due cantori erano i suoi figli nati da Sita dopo l'esi­lio. Con le lacrime agli occhi, Rama li abbracciò amorevolmente e poi si rivolse a Valmiki.
"O grande e misericordioso saggio," pregò, "se Sita è veramente ri­masta casta e pura come dice il tuo poema, conducila qui e fa in modo che dia un'altra prova pubblica."
Valmiki acconsentì e mandò a prendere Sita. Venne la sera. "Domani rivedrò Sita," pensava Rama.
Non riusciva a pensare ad altro. Non chiuse occhio per tutta la notte.
Finalmente il sole sorse e Rama entrò puntualmente nell'arena del sa­crificio, ansioso di rivedere Sita. La più casta delle donne entrò e lanciò uno sguardo d'amore in direzione del marito. Valmiki si alzò.
"O Rama," proclamò, "che le mie austerità vengano distrutte in que­sto preciso momento se Sita ha mai anche solo pensato ad un altro uomo in tutta la sua vita. Io posso testimoniare la sua purezza con certezza as­soluta."
"Io accetto come verità indubitabile ciò che mi dici," replicò Rama a voce alta per farsi sentire da tutti, "solo perché lo dici tu. Ma la gente con poca fede potrebbe dubitare ancora. Lascia che sia lei stessa a darne la prova."
Sita ripensò a tutta la sua vita e lacrime calde di dolore le scesero lungo le guance. Voleva vivere con il suo Rama, ma il disegno della loro incarnazione su questa terra prevedeva diversamente. Ora doveva dare la prova definitiva della sua purezza.
"Se è vero che non ho mai pensato neanche per un istante a nessun al­tro oltre che a te," disse Sita con voce alta e rotta dall'emozione, "se è ve­ro che sono pura e incontaminata da ogni desiderio di piacere materiale, se è vero che sono stata casta per tutta la mia esistenza, che la Dea della Terra, dalla quale provengo, venga in questo momento e mi riprenda con sé."
In quel momento il cielo si rischiarò e i Deva apparvero per assistere alla prova di Sita. Subito dopo una lieve brezza profumata si levò e la terra tremò leggermente. All'improvviso vicino Sita si aprì una grossa fenditura e, seduta su uno splendido trono d'oro, apparve la dea Bhumi. Prendendola per mano invitò Sita a sedersi sullo stesso trono e, sorriden­do a tutti, sprofondò nel crepaccio, che si richiuse subito dopo. E una pioggia di fiori celestiali piovve dall'alto dei pianeti paradisiaci. E voci diafane cantarono preghiere a Sita e alle sue illimitate qualità spirituali.

Vedendola scomparire sotto la terra, Rama capì che Sita se ne era an­data per sempre e si appoggiò al trono per non cadere a terra svenuto. L'emozione era fortissima: Rama cominciò a piangere amaramente, con disperazione. Chiamò Sita a voce alta e, in preda a una furia in­controllabile, impugnò l'arco e minacciò la Dea della Terra di di­struggere lei e tutto il suo pianeta se non gli avesse immediatamente re­stituito Sita. Ma una voce solenne lo fermò.
"Rama, non dimenticare che tu sei Vishnu stesso: presto ritroverai la tua compagna e vi riunirete. Il vostro amore è spirituale ed eterno, e non può mai essere interrotto. Sii paziente, dunque, non distruggere la Ter­ra."
Rama si calmò e passò la notte in compagnia dei suoi figli e di Val­miki. In pochi giorni il sacrificio Asvamedha fu completato.

Il grande re Rama governò a lungo. Sua madre Kausalya fu la prima a morire. Poi Sumitra e Kaikeyi. Tutte e tre si riunirono a Dasaratha nei pianeti celesti.
Qualche tempo dopo i Deva mandarono un messaggio a Rama. Un giorno un asceta alto e solenne venne ad Ayodhya e chiese di poter par­lare con lui. Avvertito dell'arrivo, il rispettoso re venne subito.
"Dimmi, sant'uomo, cosa vuoi da me? Cosa mi devi comunicare?" gli chiese.
"Ho un messaggio importante da comunicarti, ma non posso dartelo in pubblico. Il nostro incontro deve essere privato. E' molto importante." "Certamente. Vieni con me. Andiamo in un posto dove nessuno ci in­terromperà." replicò Rama.
Ma il saggio non sembrava soddisfatto.
"Non voglio essere disturbato da nessuno durante il nostro incontro. Prometti che se qualcuno dovesse entrare e interromperci per qualsiasi motivo sarà condannato a morte."
Rama accettò la condizione e, accompagnato da Lakshmana, anda­rono in una stanza privata.
"Mettiti di fronte alla porta," disse Rama a Lakshmana, "e non far en­trare nessuno per nessun motivo."
Entrarono nella stanza. Il messaggero disse di essere Kala, la per­sonificazione del tempo eterno.
"O Rama," disse Kala, "tu sei Vishnu incarnato. E' tanto tempo che sei su questo pianeta e i Deva sono ansiosi di riaverti tra loro. Tutti ti pregano di ritornare nel tuo mondo. I compiti che ti eri prefissato sono stati assolti: Ravana è stato ucciso e anche tanti altri demoni. Hai inse­gnato agli uomini come si deve comportare un re e un uomo ideale, e hai dato tanta gioia ai tuoi fedeli devoti. Sita, l'incarnazione di Lakshmi, ti sta aspettando con ansia e così tanti altri. Ti preghiamo, torna al più pre­sto."
Mentre Rama parlava con Kala, arrivò ad Ayodhya Durvasa Muni, che chiese di parlare subito con Rama. Lakshmana intervenne e pregò il saggio di attendere qualche minuto, perché Rama era impegnato in u­n'importante discussione e aveva detto che nessuno avrebbe dovuto di­sturbarlo. Ma Durvasa non voleva attendere.
"Lakshmana, e tutti voi," tuonò Durvasa, "ascoltatemi. Io voglio par­lare subito con Rama, non intendo aspettare. Questo è un segno di man­canza di rispetto. Se non ci parlerò subito, maledirò tutta la vostra dina­stia. Vi distruggerò definitivamente."
Lakshmana cercò in tutte le maniere di pacificare il saggio, ma non ci riuscì. Doveva entrare nella stanza ed avvertire Rama dell'arrivo di Dur­vasa, anche se questo avrebbe causato la sua morte: chi ci avrebbe di­sturbato dovrà essere giustiziato - aveva chiesto Kala. Ma non poteva permettere la distruzione di tutta la sua dinastia. Allora entrò nella stan­za. Rama spalancò gli occhi.
"Lakshmana," gridò, "che hai fatto? Perché sei entrato?"
Lakshmana annunciò l'arrivo del saggio. Rama, che aveva terminato in quel momento, corse fuori a ricevere Durvasa. Poi corse da suo fratel­lo minore, sconvolto.
"Signore," gli disse Lakshmana per rincuorarlo, "non dispiacerti per meTutto questo è un preciso disegno divino, ineluttabile. Tu lo sai, presto ci ritroveremo nella nostra dimora eterna."
Lakshmana si recò sulle rive del Sarayu e si sedette in posizione dello yoga. Poi sospese il respiro. E tutti videro Indra scendere per ac­compagnare il grande e virtuoso Lakshmana nei pianeti celesti.
II dolore della perdita di Lakshmana fu insopportabile. Rama chiamò tutti i suoi familiari, ministri e saggi di corte per comunicare delle deci­sioni importanti.
"Ho deciso di lasciare il trono a Bharata e ritirarmi nella foresta," fu il tremendo comunicato. "Il tempo che dovevo trascorrere su questa terra è oramai terminato e sento un grande desiderio di tornare nella mia dimora originale."
Ma Bharata non sembrava felice dell'idea.
"Io non voglio né il regno, né le glorie, né le gioie di questo mondo," disse Bharata. "Preferisco seguirti e prepararmi alla partenza da questo mondo illusorio."
Rama allora nominò reggenti i suoi figli Kusha e Lava. E quando Sa­trughna venne a sapere della scomparsa di Lakshmana e della decisione degli altri fratelli di abbandonare la loro manifestazione terrena, nominò reggente suo figlio Suvahu e decise di seguirli. Presto la notizia corse fi­no a Kiskindha e anche Sugriva decise di seguire Rama, lasciando il re­gno nelle mani di Angada.
Ad Ayodhya continuarono ad arrivare fiumane di persone che vo­levano assistere alla scomparsa del grande re. Rama ordinò ad un ad­doloratissimo Hanuman di continuare a vivere finché il Ramayana sa­rebbe esistito, e a Jambavan e a Mainda di vivere fino all'era di Kali. A Vibhisana disse di continuare a vivere fino alla distruzione dell'universo.
II mattino seguente Rama uscì dal suo palazzo e, seguito da una mol­titudine di persone, si diresse verso il Sarayu. E in quel momento la voce di Brahma, che tutti udirono e che proveniva dai pianeti celesti, risuonò: "Oh Signore Supremo! Oh eterno Vishnu! Torna tra di noi!"
Così Rama, seguito da Bharata, Satrughna e Sugriva, abbandonò que­sto pianeta, lasciando un grande vuoto nei cuori dei suoi devoti.
Nel corso del tempo Ayodhya diventò una città deserta e spopolata e restò in questa condizione per molto tempo finché il re Rishabha venne e la fece rifiorire.
Valmiki concluse la sua storia dicendo: "Chi legge anche un solo ver­so di questo poema è fortunato e la sua vita sarà felice."